Quasi Modo Quotes

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Le anime hanno un loro particolar modo d'intendersi, d'entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e le loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quando veda l'impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d'ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l'angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano.
Luigi Pirandello (Il fu Mattia Pascal)
Lo so come ti senti. È come essere dietro un vetro, non puoi toccare niente di quello che vedi. Ho passato tre quarti della mia vita chiuso fuori, finché ho capito che l'unico modo è romperlo. E se hai paura di farti male, prova a immaginarti di essere già vecchio e quasi morto, pieno di rimpianti.
Andrea De Carlo (Due di due)
Le cose si rompono , a volte si aggiustano, e ci rendiamo conto che, per quanti danni possiamo subire, la vita ci ricompensa quasi sempre, spesso in modo meraviglioso.
Hanya Yanagihara (A Little Life)
La cosa più bella che può capitare a uno scrittore, a qualcuno che passa la sua vita a raccontare, è sentirsi raccontare. E quando scopri qualcuno che ti assomiglia veramente (ce ne sono) ti accorgi di quanto la persona su cui ti eri incastrata era sbagliata per te, e tu sbagliata per lui, e di quanto forse lei invece sia giusta, e quasi spero che ce la farà, che ce la faranno, perché è quello che conta, diventare un plurale – finché siamo io e te, come eravamo io e te, non cambia mai niente - e poi magari nessuno di noi si incontrerà mai, continueremo a essere soli in quel modo che soli non siamo, coi nostri fantasmi d’orgoglio e dolore, la nostra paura, un manipolo di sogni che a volte sono forti e hanno il potere di distorcere la trama del mondo e altre volte ci gravano addosso perché quella forza non la troviamo, vogliamo possiamo, ed è il mondo che distorce la trama di noi – io, te, lui, lei… così simili nel nostro essere – diversamente - alla deriva.
Sara Zelda Mazzini (Cronache dalla fine del mondo)
«Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel. ... «Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»
Carlos Ruiz Zafón
Perché? si chiese Morgana. Forse perché il mondo era quale lo credevano gli uomini? Nelle ultime generazioni gli uomini avevano imparato a credere che esistessero un solo Dio, un solo mondo, un solo modo di descrivere la realtà, e che quanto era estraneo a quel mondo appartenesse ai diavoli, e che il suono delle campane tenesse lontano il male...E più era numerosa la gente che lo credeva, più Avalon diventava un sogno alla deriva in un altro mondo quasi inaccessibile.
Marion Zimmer Bradley (The Mists of Avalon (Avalon, #1))
Ci sono talmente tanti modi di essere spregevoli che quasi viene il capogiro a pensarci. Ma il vero modo di essere spregevoli è provare disprezzo per il dolore altrui.
James Baldwin (Giovanni's Room)
«Mettiti il casco. È tardi!» le ordinò senza guardarla in viso mentre le porgeva il copricapo. Asia non disse una parola. Il sole era già scomparso ed era consapevole che con l’oscurità il Male avrebbe potuto fare capolino da un momento all’altro. Il cimitero del Wawel distava pochi minuti dal suo appartamento, ma lei conosceva bene il Venator e sapeva perché si spostava comunque in moto. Le sacche laterali della sua cavalcatura erano piene zeppe di armi, una vera e propria santa barbara sempre pronta all’uso. Mentre si issava con accuratezza dietro di lui cercò di trattenere il respiro. L’idea di sfiorare di nuovo, dopo quasi due anni, il suo corpo la faceva sentire come una bambina il primo giorno di scuola: tensione a mille, ansia, batticuore e la sensazione che di lì a poco sarebbe morta di infarto. Ma quel momento magico fu bruscamente distrutto, e le acide parole inzuppate nel veleno che uscirono dalle labbra di Bor la scaraventarono con una forza dolorosa nella realtà di quel pomeriggio. «Aggrappati alle manigliette laterali, non a me. E reggiti forte, non mi va di dovermi fermare a raccogliere i tuoi pezzetti.» Asia si sentì morire ma mai, per nessuna ragione al mondo, gli avrebbe dato soddisfazione. «Certo, non temere, non ti accorgerai nemmeno di me», disse a denti stretti mentre la bocca le si seccava per la delusione di essere stata respinta così in malo modo.
Eilan Moon
Lo so, lo so, ma ascoltami. Hai letto L’idiota, vero? Sì. Beh, L’idiota è un libro molto inquietante per me. Mi ha fatto così effetto che dopo non ho quasi più letto romanzi, a parte roba tipo ‘Uomini che odiano le donne’. Perché… provavo a intromettermi, …be’, magari me lo dici dopo, a cosa pensavi, lasciami finire di dirti perché l’ho trovato inquietante. Perché tutto quello che Myškin fa è buono… altruista… tratta tutti con compassione e comprensione e a cosa porta tutta quella bontà? Omicidi! Disastri! Una volta mi preoccupavo un sacco di questa cosa. Me ne stavo sveglio a letto di notte e mi preoccupavo! Perché – perché? Com'era possibile? Ho letto quel libro tre volte, pensando di non averlo capito. Myškin era gentile, amava la gente, era tenero, perdonava sempre, non faceva mai niente di sbagliato – ma si fidava di tutte le persone sbagliate, prendeva solo decisioni sbagliate, faceva soffrire tutti quelli che gli stavano intorno. Quel libro contiene un messaggio oscuro. “A che pro essere buoni?” Ma – questo è ciò che ho capito ieri notte, mentre guidavo. E se… se fosse più complicato di così? Se fosse vero anche il contrario? Perché se è vero che il male può discendere dalle buone azioni… dove sta scritto che da quelle cattive può venire solo il male? Magari a volte – il modo sbagliato è quello giusto? Magari prendi la strada sbagliata e ti porta comunque dove volevi? O vedila in un altro modo, certe volte puoi sbagliare tutto, e alla fine viene fuori che andava bene?
Donna Tartt (The Goldfinch)
Quando tentano di esprimere la verità, le parole balbettano sempre in questo modo. Mi pare quasi di vederle annaspare. Non per vergogna, né per paura, ma perché è inevitabile che la nuda verità provochi un simile balbettare, espressione di una sua certa rozza natura.
Yukio Mishima (Sun & Steel)
Gran magistero della natura fu quello d'interrompere, per modo di dire, la vita col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù. Oltre alla gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall'altra è un sommo rimedio contro la monotonia dell'esistenza. Né questa si poteva diversificare e variare maggiormente, che componendola in gran parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte.
Giacomo Leopardi (Zibaldone di pensieri)
La speranza era diventata quasi una maledizione per lei. Avrebbe voluto che non ce ne fosse bisogno. Ah, che tormento quello sperare, che insulto alla propria anima. Perché non c'era un disastro chiaro, completo, in modo da non pensarci più? Questo andirivieni con la speranza era peggio della disperazione…
D.H. Lawrence (The Ladybird)
Se fossi una persona diversa, forse direi che ciò che è accaduto è una metafora della vita: le cose si rompono, a volte si aggiustano, e ci rendiamo conto che, per quanti danni possiamo subire, la vita ci ricompensa quasi sempre, spesso in modo meraviglioso. A pensarci bene, forse sono proprio quel tipo di persona.
Hanya Yanagihara (A Little Life)
Decido che quando la riporterò a casa stasera non la bacerò. Le dimostrerò che questa è solo una cena amichevole tra vicini di casa e niente di più. Camminiamo in silenzio. Il braccio di Jane rimane infilato nel mio, ma non faccio nulla per toglierlo. Non le sono mai stato così vicino fisicamente e sono dolorosamente consapevole che è passato molto tempo da quando una donna mi ha toccato in un modo così dolce. Nonostante ogni fibra del mio essere mi stia urlando di non farmi coinvolgere, il suo tocco mi piace troppo per spingerla via. E quella consapevolezza è quasi sconvolgente perché è chiaro che, probabilmente, sto combattendo una battaglia già persa con me stesso.
Sawyer Bennett (Finding Kyle)
«James,» ha cominciato, sedendosi e lisciandosi i pantaloni con la mano tesa, un suo gesto tipico, «devi dirmi tutte le tue novità». Novità, ho pensato, novità. Che concetto curioso. Certo, le vite delle altre persone progrediscono in questo modo. C'erano le novità – promozioni, matrimoni e bambini, nuovi acquisti frutto di faticosi risparmi, vacanze programmate, avventure commerciali, sogni prossimi alla realizzazione o abbandonati. Quasi tutte le "novità" in effetti riguardano il denaro. Ottenerlo, spenderlo, accumularlo e accrescerlo. Una volta che si è ottenuto tutto il denaro possibile, che fine fanno le novità? Restano solo gli amori, la procreazione e gli entusiasmi passeggeri, che prendono il posto che ha il lavoro per le altre persone.
Naomi Alderman (The Lessons)
Su Internet avevo visto vecchi rossetti Yardley – lo stick ormai ridotto a un impasto ceroso sbriciolato – in vendita per quasi cento dollari. In modo che le donne di una certa età potessero sentirlo di nuovo, quell’odore chimico di fiori. Ecco quanto ci tenevano le persone, a sapere che la loro vita era accaduta davvero, che ciò che erano state un tempo esisteva ancora da qualche parte dentro di loro.
Emma Cline (The Girls)
Era molto stressante stare a vedere quali sarebbero state le reazioni: se l’avrebbero rifiutato, o se sarebbero riusciti anche solo a capire cosa significava quando un ragazzo trans dichiarava di essere gay. Ma non per Julian. Lui l’aveva detto quasi in tono di sfida. In un modo che diceva che non gli importava cosa pensassero gli altri al riguardo. Era una cosa che lo intimidiva e lo riempiva di ammirazione al tempo stesso.
Aiden Thomas (Cemetery Boys (Cemetery Boys, #1))
La nostra epoca è alla ricerca insistente, a volte quasi disperata, di un’idea di ordine mondiale. Il caos incombe minaccioso, accompagnandosi con un’interdipendenza senza precedenti: nella proliferazione delle armi di distruzione di massa, nella disintegrazione degli Stati, nell’impatto delle devastazioni ambientali, nel persistere delle pratiche genocide e nella diffusione di nuove tecnologie che rischiano di spingere il conflitto al di fuori del controllo o della comprensione dell’uomo. Nuovi metodi di accesso all’informazione e di comunicazione uniscono differenti regioni come mai nel passato e proiettano gli eventi su scala globale, ma in un modo che impedisce la riflessione, costringendo i leader ad avere reazioni istantanee in forma di slogan. Ci aspetta forse un periodo in cui a determinare il futuro saranno forze che vanno oltre i limiti di un qualsiasi ordine?
Henry Kissinger (Ordine mondiale (Italian Edition))
«È orribile. Non voglio doverlo fare di nuovo,» mormorò. «Una volta mi è bastata.» Mery ripeté: «Non sei costretto. Zimmermann non è neppure un tuo amico. Se non te la senti, non lo fare. Lascia che si arrangi.» Gabe riusciva quasi a immaginarsi la scena: al centro della stanza Zeke, con lo sguardo puntato a terra e le mani tremanti. Davanti a lui sua madre, il volto paralizzato in una smorfia che era in pari misura disgusto e odio. «Devi venire anche tu, Mery. Devi aiutarmi.» «Cosa? Vuoi davvero aiutarlo?» «Sì.» «Perché?» «Forse c’è una possibilità. Un modo per far sì che la cosa funzioni. Zeke e sua madre, intendo. Forse, se lo aiuto, lui non finirà…» «Come te?» concluse Mery con la tristezza negli occhi. «Non vuoi che affronti quello che affronti tu ogni giorno.» Lui annuì. «Tu devi esserci, Mery.» «Io odio Zimmermann.» «Lo so. Ma ami me. Non è solo Zeke ad avere bisogno di aiuto.»
Susan Moretto (Principessina)
Forse il libro [Don Chisciotte] continua ad essere, tra i grandi, uno dei meno letti. Ma ha una vitalità che va al di là delle pagine, che si è incorporata a un modo di esistere, all’esistenza stessa in quel che ha di nobiltà, di poesia. Ne abbiamo il senso ad Alcalà de Henares, città in cui Cervantes è nato e che conserva, improbabile ma suggestiva, la casa natale. Nella vasta e armoniosa piazza in cui sorge il monumento a lui dedicato, di tanto in tanto attraversata dal volo lento delle cicogne, il pomeriggio primaverile ha portato intere famiglie. I bambini corrono nei loro giochi; gli adulti se ne stanno in riposo, come assorti. Non è domenica, ma c’è un’aria domenicale. Le prime due parole del prologo ci affiorano quasi automaticamente: “desocupado lector”. Ecco dei lettori disoccupati, disoccupati al punto che mai leggeranno il libro. Poiché - riposo, speranza e altro - stanno vivendolo.
Leonardo Sciascia (Ore di Spagna)
«Tu non sai chi io sia. Non mi conosci e mi hai appiccicato addosso un’etichetta.» «Più o meno come hai fatto tu con la storia del ragazzo d’oro.» Gabe aprì la bocca, poi la richiuse di scatto e uscì dall’auto, allontanandosi lungo il marciapiede. I lacci slacciati degli anfibi rischiavano di farlo inciampare a ogni passo, specie quando si voltò ritornando rapido sui suoi passi. Zeke abbassò il finestrino, rassegnato a ricevere una sequela di insulti. «Hai ragione.» Quando sentì quelle parole uscire dalla bocca di Gabe, quasi non le capì. «Hai ragione. Ti ho attaccato un’etichetta e non avrei dovuto. Non ti farò le mie scuse, perché tu ti sei comportato allo stesso modo. Ma cercherò di conoscerti meglio, se tu farai lo stesso.» «D’accordo.» «E continuerò a chiamarti ragazzo d’oro.» Zeke sorrise. «D’accordo.» In qualche modo anche Gabe si ritrovò a rivolgergli un sorrisino. «Buonanotte, ragazzo d’oro. »
Susan Moretto (Principessina)
Mi chiesi se prima o poi ci si faceva l’abitudine. O forse a furia di accumulare debiti di malessere alla fine si trova un modo per ripagarli tutti in una volta, riportando in pareggio il bilancio delle emozioni? Oppure la presenza dell’altro, che fino a ieri mattina sembrava quasi un intruso, diventa perfino più necessaria perché ci protegge dal nostro inferno individuale, tanto che la persona che ci tormenta di giorno è la stessa che ci dà sollievo la notte?
André Aciman (Call Me By Your Name (Call Me By Your Name, #1))
Zeke posò la mano sulla guancia di Gabe, cercando di capire se stesse piangendo in silenzio. Ma trovò la pelle liscia e asciutta, in alcuni punti bollente per le botte, e d’istinto tolse la mano. Non voleva ferire Gabe, in nessun modo. Però il ragazzo gli riprese la mano, intrecciando le dita insieme, e se la posò nuovamente sulla guancia. Le loro dita intrecciate, calde quelle di Gabe e fresche quelle di Zeke, sembrarono confortare entrambi. Gabe aveva già fatto quel gesto, la sera di Halloween, quando Zeke era fuori di sé, e anche in quell’occasione il contatto lo aveva placato, calmato. Non dappertutto: c’erano parti del suo corpo che erano sembrate in fiamme per quel semplice tocco, la notte di Halloween così come in quel frangente. Zeke si mosse a disagio nel letto, grato che il buio nascondesse le guance arrossate, e Gabe sciolse le loro dita, lasciando tuttavia la mano di Zeke sulla sua guancia Gabe gli catturò le labbra. Un bacio gentile, quasi timoroso.
Susan Moretto (Principessina)
«Allora, hai intenzione di baciarmi?» «Santo Dio,» mormoro, desiderando poterle dire, No, non ho intenzione di baciarti. Né ora né mai. Ma dalla mia bocca non esce altro. Ridacchia ancora. «Certo che vuoi baciarmi.» «Mi piacerebbe di più torcerti il collo,» le ringhio contro. Lei ride di me ancora una volta, e le mie labbra si contraggono… di nuovo. «Seriamente, però,» continua solennemente fermandosi a metà del passo e stringendomi la mano intorno al braccio, il che mi fa fermare a mia volta e girare verso di lei. Il suo sguardo è turbato, ogni traccia di divertimento è sparita. «Ti sto prendendo in giro. Non devi baciarmi.» La fisso un momento riflettendo, i miei occhi si spostano sul suo bel viso innocente. La sua testa si inclina di lato, quasi come se stesse cercando di capire cosa si nasconde dentro la mia testa. «Ci penserò,» le dico alla fine. «E ti farò sapere una volta arrivati a casa tua.» Lei mi sorride. E questo mi fa stringere lo stomaco e formicolare la pelle, in modo non del tutto sgradevole. Quindi immagino di avere già la risposta.
Sawyer Bennett (Finding Kyle)
Questo folle uomo mi sta facendo tornare la gioia di vivere, quella gioia che avevo perso alla vista del corpo di mia madre privo di vita e che era stata sostituita, col tempo, da semplice gioia. Esiste una profonda, ma ineffabile, differenza tra la gioia e la gioia di vivere e sono pochi coloro i quali riescono a coglierla. La gioia è solo un aspetto esteriore, quasi un accessorio posto sul nostro corpo, mentre la Gioia di vivere, quella con la G maiuscola, è un modo di essere, una parte dell’essenza dell’individuo. È un qualcosa che si sente dentro." cit. Silvia Devitofrancesco, "Lo specchio del tempo
Silvia Devitofrancesco (Lo specchio del tempo)
Stavo pensando", disse Prokop come se volesse farsi perdonare il suo silenzio, "com'è strano quando il vento gioca con gli oggetti inanimati. E' quasi miracoloso il modo in cui cose che giacciono in giro senza un briciolo di vita improvvisamente cominciano a svolazzare. Non ve ne siete accorti? Una volta stavo in una piazza deserta e guardavo un mucchio di cartacce che si rincorrevano l'un l'altra. Non sentivo il vento perché stavo in un angolo riparato, ma eccole là, ammassate insieme in una vera e propria danza della morte. Un attimo dopo sembrava che avessero stipulato un armistizio ma, tutto a un tratto, uno sbuffo irresistibile della memoria sembrava soffiare su di loro, e ricominciavano, ognuna correndo dietro alla sua vicina finché scomparvero dietro l'angolo. Rimase solo un giornale intero; stava impotente sul selciato, e sbatteva astiosamente di qua e di là: sembrava un pesce fuor d'acqua che boccheggiasse. Non potei fare a meno di pensare che noi, in fin dei conti, siamo proprio come quei pezzetti di carta svolazzanti, nient'altro. Siamo trascinati di qua e di là da un "vento" invisibile e incomprensibile, che ci obbliga a comportarci in un certo modo, per quanto -da vanitosi- ci vantiamo della nostra forza di volontà.
Gustav Meyrink (The Golem)
Ma appena un oggetto emanava noia, non avevo quasi bisogno di guardare la didascalia: era un pettine (o una maschera, o un’effigie) originaria del Vanuatu, che somigliava in modo straordinario ai pettini (o alle maschere, o alle effigi) che si vedono nel novantanove per cento dei musei di anticaglia municipale del mondo intero, dove ci tocca contemplare le eterne punte di silice o le collane di denti di cui i nostri lontani antenati hanno creduto necessario stipare le loro grotte. Esporre quel genere di cose mi è sempre sembrato assurdo, come se gli archeologi del futuro si mettessero in testa di esporre le nostre forchette di plastica e i nostri piatti di carta.
Amélie Nothomb
Il mondo vi era ritratto in modo inevitabilmente parziale ma rigorosamente privo di gerarchie. Le annotazioni – sempre molto sintetiche, quasi telegrafiche – testimoniavano una mente precocemente consapevole della natura articolata e pluralistica del mistero della vita: perché la luna non è sempre uguale, cos’è la Polizia, come si chiamano i mesi, quando si piange, natura e scopi del binocolo, origini della diarrea, cos’è la felicità, sistema rapido di allacciamento delle stringhe, nomi di città, utilità delle bare da morto, come diventare Santo, dov’è l’Inferno, regole fondamentali per la pesca alla trota, lista dei colori disponibili in natura, ricetta del caffellatte, nomi di cani famosi, dove va a finire il vento, festività dell’anno, da che parte è il cuore, quando finirà il mondo. Cose così.
Alessandro Baricco (Castelli di rabbia)
«Parlami.» Riesco a dirlo così piano che non sono sicuro che mi abbia sentito, finché non sento le sue labbra distendersi in un sorriso sui miei addominali. «Travis, devi essere dannatamente malato per chiedermi una cosa simile.» La sua voce grave mi fa rabbrividire. È Mack, lui, con la sua bella bocca da cattivo ragazzo, la sua voce grave e calda che richiama il sesso. Scende sui miei addominali e la sua lingua continua a uccidermi dolcemente tra un bacio e l’altro, mi lecca l’ombelico e continua quello che sta facendo, facendomi impazzire. Vorrei toccarlo anche io, ma le mie mani sono inerti, il mio corpo è privo di energia e solo Mack e le sue carezze riescono a ravvivarmi. La sua bocca mi scivola sul petto, lecca ogni centimetro del mio corpo a sua disposizione e il suo sedere, il suo magnifico sedere si strofina sul mio cazzo già duro e dolorante a sentirlo così vicino, e tuttavia troppo lontano. Si raddrizza, sento i rumori dei suoi vestiti che cadono al suolo, poi ritorna su di me. Il dolore è sempre là, ma lui è riuscito a relegarlo in secondo piano, dietro tutto quel desiderio accumulato tra noi e il piacere che mi offre. Probabilmente dovrei respingerlo. Sì, dovrei proprio farlo se ne fossi capace, ma anche se fossi pienamente lucido, lo lascerei fare perché è semplicemente troppo bello. Di solito non faccio troppi preliminari, non in questo modo, non con tanta dolcezza da essere quasi doloroso aspettare la prossima carezza o la prossima sensazione che scatenerà la sua bocca su di me. Mi scopro ad apprezzare questo suo modo di fare, perché è Mack e anche se può essere focoso, è anche molto tenero e dolce
Amheliie (Road (French Edition))
Era uno spettacolo straziante vedere quella donna entrare un giorno dopo l'altro nel cortile della prigione per cercare con ansia e fervore, con l'amore e con le suppliche di intenerire il cuore di pietra del figlio. Ma invano perché egli rimaneva cupo, ostinato e impenitente. Non riuscì ad addolcirne per un istante la durezza della espressione nemmeno l'insperata commutazione della pena di morte in quattordici anni di lavori forzati. Infine la pazienza e la rassegnazione che tanto a lungo avevano sorretto la donna non poterono più dominare le infermità fisiche. Ella si trascinò ancora una volta lungo la via per andare a vedere il figlio, ma le mancarono le forze e cadde a terra priva di sensi. Furono allora poste alla prova la freddezza e l'indifferenza del giovane, e la privazione di cui non poté non avvertire il colpo lo fece quasi impazzire. Un giorno era trascorso e sua madre non era andata a trovarlo; e poi un altro passò senza che gli andasse vicino e un altro ancora, ma non la vide; mancavano ormai solo ventiquattro ore a quello che sarebbe stato forse l'addio supremo. Oh, come allora gli si affollarono alla mente le memorie da tanto tempo dimenticate dei giorni lontani! Correva sconvolto avanti e indietro per l'angusto cortile, come se agitandosi a quel modo avesse potuto affrettare la visita attesa: e con quale amarezza lo investì la realtà della sua condizione di impotente desolazione quando seppe la verità! Sua madre, la sola persona cara che avesse mai avuto sulla terra, era malata, forse morente, meno di un miglio lontano da dove egli si trovava, e se fosse stato libero dai ceppi, gli sarebbero bastati pochi minuti per recarsi al suo capezzale. Corse al cancello, si aggrappò alle sbarre di ferro con la forza della disperazione, e le scosse fino a farle risonare, si gettò contro l'enorme muraglia quasi sperando si aprirsi fra le piante una via d'uscita; ma il cancello e le mura si fecero beffa dei suoi tentativi, ed egli si torse le mani e pianse come un fanciullo.
Charles Dickens (The Pickwick Papers)
Chi sa ballare alla persiana?” domando. Tutte si voltano a guardare Sanaz. Lei si schermisce, fa di no con la tessta. Cominciamo ad insistere, a incoraggiarla, formiamo un cerchio intorno a lei. Quando inizia a ballare, piuttosto a disagio, battiamo le mani e ci mettiamo a canticchiare. Nassrin ci chiede di fare più piano. Sanaz riprende, quasi vergognandosi, a piccoli passi, muovendo il bacino con grazia sensuale. Continuiamo a ridere e a scherzare, e lei si fa più ardita; muove la testa a destra e sinistra, e ogni parte del suo corpo vibra; balla anche con le dita e le mani. Sul suo volto compare un'espressione particolare, spavalda, ammicante, che attrae, cattura, e al tempo stesso sfugge e si nasconde. Appena smette di ballare, tuttavia, il suo potere svanisce. Esistono varie forme di seduzione, ma quella che emana dalle danze tradizionali persiane è unica, una miscela di impudenza e sottigliezza di cui non mi pare esistano eguali nel mondo occidentale. Ho visto donne di ogni estrazione sociale assumere lo stesso sguardo di Sanaz, sornione, seducente e l'ho ritrovato anni dopo sul viso di Leyly, una mia amica molto sofisticata che aveva studiato in Francia, vedendola ballare al ritmo di una musica piena di parole come naz e eshveh e kereshmeh, che potremmo tradurre con “malizia”, “provocazione”, “civetteria”, senza però riuscire a rendere l'idea. QUesto tipo di seduzione è al tempo stesso elusiva, vigorosa e tangibile. Il corpo si contorce, ruota su se stesso, si annoda e si snoda. Le mani si aprono e si chiudono, i fianchi sembrano avvitarsi e poi sciogliersi. Ed è tutto calcolato: ogni passo ha il suo effetto, e così il successivo. È un ballo che seduce in un modo che Daisy Miller non si sognava neanche. È sfacciato, ma tutt'altro che arrendevole. Ed è tutto nei gesti di Sanaz. La veste nera e il velo - che ne incorniciano il volto scavato, gli occhi grandi e il corpo snello e fragile - conferiscono uno strano fascino ai suoi movimenti. Con ogni mossa, Sanaz sembra liberarsene: la vesta diventa sempre più leggera, e aggiunge mistero all'enigma della danza.
Azar Nafisi (Reading Lolita in Tehran: A Memoir in Books)
Parigi non è una città, è l'immagine, il segno, il simbolo della Francia, il suo presente e il suo passato, l'immagine della sua storia, della sua geografia, della sua più recondita essenza. E' una città intrisa di significati, più di Londra, Madrid, Stoccolma e Mosca, quasi allo stesso modo di Pietroburgo, New York o Roma. Parigi trasuda questi significati, ha tanti aspetti, è sfaccettata, parla di futuro e di passato, è stracolma di manifestazioni del presente, sprigiona l'aura pesante, ricca e densa del tempo in cui viviamo. Non ci si può vivere ignorandola, non è possibile isolarsi, rinchiudersi: penetra comunque in casa, nella stanza, in noi stessi, ci cambierà, ci costringe rà a crescere, a invecchiare, rovinandoci o innalzandoci, forse uccidendoci. Esiste presente ed eterna, sta intorno e dentro di noi. Puoi amarla o odiarla, ma non le sfuggirai. Parigi suscita una catena di associazioni e tu stesso ne sei un anello. Avvinto, non sei più quello di prima: ti inghiotte, ma è tua, vi siete mangiati a vicenda, ti scorre nel sangue.
Nina Berberova
Resta strano e quasi inesplicabile il fatto che nella città di Atene, dove le donne erano tenute in reclusione quasi orientale, come odalische o serve, il teatro abbia ugualmente prodotto figure come Clitemnestra e Cassandra, Atossa e Antigone, Fedra e Medea, e tutte le altre eroine che dominano i drammi del "misogino" Euripide. Ma il paradosso di questo mondo, in cui nella vita reale una donna rispettabile non poteva quasi farsi vedere sola per strada, e tuttavia sulla scena, la donna uguaglia e supera l'uomo, non è stato mai spiegato in modo soddisfacente. Nella tragedia moderna esiste lo stesso prodominio. Ad ogni modo, una scorsa all'opera di Shakespeare (e anche a quella di Webster, ma non di Marlowe o Jonson) basta a dimostrare che questo preodominio, questa iniziativa delle donne, persiste da Rosalind a Lady Macbeth. E' così anche in Racine; se delle sue tragedia portano il nome dell'eroina; e quale dei suoi personaggi maschili possiamo contrapporre ad Ermione e ad Andromaca, a Berenice e a Rossana, a Fedra e ad Atalia? Così di nuovo con Ibsen, quale uomo possiamo paragonare a Solveig e Nora, Hedda e Hilda Wangel e Rebecca West?
F.L. Lucas (Greek Tragedy and Comedy)
Nessuno ha idea di cosa significhino quelle parole, e se fin da quando Gioia tre mesi fa è arrivata in questa scuola è stata subito additata come Quella-non-del-tutto-a-posto o Quella-con-un-sacco-di-problemi, è anche per quelle quattro parole che si riscrive, ogni mattina, sul braccio. «Ma che roba è? Inglese o cosa?» le aveva chiesto il terzo giorno Giulia Batta, la compagna che nella classifica delle più belle della classe figurava esattamente al primo posto. «O cosa», aveva risposto Gioia, senza neanche guardarla. Avrebbe voluto spiegarle che era in tedesco, quella scritta, e che erano parole quasi intraducibili ma significavano più o meno: “Quando la felicità è qualcosa che cade”, e forse anche dirle perché si scriveva addosso proprio quelle parole, ogni giorno: ma il modo in cui glielo aveva chiesto, gli sguardi di tutti lì intorno, be’, insomma, alla fine tutto quello che aveva risposto era stato: «O cosa». Che per inciso, per settimane intere, erano state anche le uniche parole che aveva scambiato coi suoi nuovi compagni. Il fatto è che certe cose le puoi dire solo a chi sai che le può capire. Che è anche il motivo per cui parliamo così poco, di quello che ci importa davvero.
Enrico Galiano (Eppure cadiamo felici)
C'era quindi poco da dubitare che, dopo quell'incontro quasi fatale, Achab avesse sempre nutrito contro la balena una sfrenata ansia di vendetta, tanto più profonda perché, nella sua incontrollata smania, aveva finito con l'identificare con quell'animale non solo tutti i suoi dolori fisici, ma anche tutte le sue esasperazioni intellettuali e spirituali. La Balena Bianca nuotava davanti a lui come l'ossessiva incarnazione di tutte quelle forze maligne da cui alcuni uomini profondi si sentono divorati, finché quel che loro rimane per continuare a vivere non è che mezzo cuore e mezzo polmone. [...] Tutto ciò che sconvolge e fa impazzire di più, tutto ciò che fa rimescolare il sedimento sul fondo della bottiglia , ogni verità che contenga una parte maligna, tutto ciò che schianta i nervi a fa indurire il cervello, tutto il male, per l'invasato Achab, erano personificati in modo visibile, e tale da rendere praticamente possibile attaccarli, in Moby Dick. Sulla bianca gobba della balena aveva accumulato la somma di tutta la rabbia, di tutto l'odio sentiti dalla sua stirpe da Adamo in poi; e quindi, neanche avesse un mortaio al posto del petto, le sparava contro, come un proiettile, il suo cuore.
Herman Melville (Moby-Dick or, The Whale)
La guerra è causa di morte come ce n'è tante, come il cancro e la tubercolosi, come la spagnola e la dissenteria. Solo che i casi di morte qui sono più frequenti, più svariati e più crudeli. [...] Tutti siamo a questo modo, non soltanto noi qui; ciò che fummo un tempo non conta, quasi non lo sappiamo più. Le differenze create dalla cultura e dalla educazione sono quasi cancellate, appena riconoscibili. Talvolta rappresentano un vantaggio, nello sfruttare una situazione; ma portano seco anche qualche svantaggio, perché creano degli impacci che bisogna poi superare. È come se in passato fossimo stati monete di vari paesi: fuse poi nel medesimo crogiuolo, e che ormai portano tutte la stessa impronta. Per riscontrare ancora le differenze fra noi, bisognerebbe analizzare accuratamente il metallo. Siamo soldati anzitutto, e solo in linea secondaria e in una forma strana e quasi vergognosa siamo individui. S'è creata una vasta fraternità, in cui si fonde stranamente qualcosa del cameratismo delle canzoni popolari, col senso di solidarietà dei galeotti e col disperato attaccamento tra condannati a morte. È una vita che ha per ambiente e per sfondo il pericolo, la tensione morale, il mortale abbandono, e che diventa un fuggevole godimento in comune delle poche ore di tregua, nel modo più semplice e senza sentimentalismo.
Erich Maria Remarque
A volte alzavano gli occhi dai loro libri, si sorridevano e tornavano a leggere. Altre invece era solo Stoner che sollevava lo sguardo e indugiava sulle curve aggraziate della schiena di Katherine e sul suo collo affusolato, su cui ricadeva sempre un ricciolo di capelli. Poi, lentamente, veniva colto da un desiderio calmo e rilassato, e allora si alzava, si fermava dietro di lei e le posava delicatamente le braccia sulle spalle. Katherine drizzava la schiena e abbandonava la testa sul suo petto mentre lui avanzava con le mani nella veste aperta, toccandole sul suo petto mentre lui avanzava con le mani nella veste aperta, toccandole dolcemente i seni. Facevano l'amore, restavano sdraiati per un po' e tornavano a studiare, come se l'amore e lo studio fossero un unico processo. Era una delle eccezioni alla cosiddetta "opinione condivisa" che impararono a conoscere durante quell'estate. Entrambi erano stati educati nel rispetto di una tradizione secondo cui, in un modo o nell'altro, la vita della mente e la vita dei sensi sono separate, anzi addirittura nemiche. Avevano sempre creduto, senza mai porsi veramente il problema, che quando due persone si scelgono, ce n'è sempre una che subisce. Mai avevano immaginato che potessero arricchirsi l'un l'altra; e poiché l'esperienza della verità era arrivata prima della teorie, si convinsero che fosse una scoperta tutta loro. Cominciarono a stilare una lista di queste eccezioni all'opinione data" e a custodirle come un tesoro: li aiutava a isolarsi dal mondo che gliele avrebbe imposte tali opinioni e li avvicinava ancor di più, quasi commuovendoli.
John Williams (Stoner)
«Che cosa è l'amore?», disse Melmoth, «è questa la domanda? voi dubitate del mio amore», rispose Isidora; «ditemi allora, che cosa è Mi affidate un compito», disse Melmoth, sorridendo senza allegria, «cosi affine ai miei sentimenti e ai miei pensieri abituali, che lo svolgerò di certo in modo ineguagliabile. Amare, bella Isidora, è vivere in un mondo creato dal cuore, nel quale le forme e i colori sono lucenti quanto ingannevoli e irreali Per quelli che amano non c'è né giorno ne notte, né estate né inverno, né compagnia né solitudine. La loro deliziosa ma illusoria esistenza non ha che due momenti, cosi segnati nel calendario del cuore: presenza e assenza. Essi ostituiscono tutte le distinzioni della natura e della società. Il mondo per loro non contiene che un solo individuo, e quell'individuo è per loro il mondo intero e il suo unico abitante. L'atmosfera della sua presenza è la sola in cui possano respirare, e la luce dei suoi occhi è l'unico sole della loro creazione Allora io amo», disse Isidora dentro di sé Amare», continuò Melmoth, «è vivere un'esistenza piena di contraddi zioni, sentire che l'assenza è insopportabile, e soffrire quasi altrettanto in presenza dell'oggetto amato; avere mille pensieri quando siamo lontani da lui, immaginare come sarà bello confessarglieli, e quando viene il momento atteso sentire, per una timidezza opprimente e inspiegabile, che siamo inca paci di esprimerne anche uno soltanto; essere eloquenti in sua assenza e muti n sua presenza; attendere l'ora del suo ritorno come l'alba di una nuova esistenza, e quando arriva sentirsi privi delle facoltà alle quali doveva dare nuovo vigore; desiderare la luce dei suoi occhi come il viandante del deserto attende il levar del sole, e quando sorge abbagliante sul nostro mondo rinato essere sopraffatti dalla luce intollerabile e quasi desiderare che sia di nuovo notte... questo è amare».
Charles Robert Maturin
Cos'altro posso fare per incoraggiarvi a far fronte alla vita? Ragazze, dovrei dirvi – e per favore ascoltatemi, perché comincia la perorazione – che a mio parere siete vergognosamente ignoranti. Non avete mai fatto scoperte di alcuna importanza. Non avete mai fatto tremare un impero, né condotto in battaglia un esercito. Non avete scritto i drammi di Shakespeare, e non avete mai impartito i benefici della civiltà ad una razza barbara. Come vi giustificate? È facile dire, indicando le strade, le piazze, le foreste del globo gremite di abitanti neri e bianchi e color caffè, tutti freneticamente indaffarati nell'industria, nel commercio, nell'amore: abbiamo avuto altro da fare. Senza la nostra attività nessuno avrebbe solcato questi mari, e queste terre fertili sarebbero state deserto. Abbiamo partorito e allevato e lavato e istruito, forse fino all'età di sei o sette anni, i milleseicentoventitré milioni di esseri umani che secondo le statistiche sono attualmente al mondo; e questa fatica, anche ammettendo che qualcuno ci abbia aiutate, richiede tempo. C'è del vero in quel che dite – non lo nego. Ma nello stesso tempo devo ricordarvi che fin dal 1866 esistevano in Inghilterra almeno due colleges femminili; che, a partire dal 1880, una donna sposata poteva, per legge, possedere i propri beni; e nel 1919 – cioè più di nove anni fa – le è stato concesso il voto? Devo anche ricordarvi che da ben dieci anni vi è stato aperto l'accesso a quasi tutte le professioni? Se riflettete su questi immensi privilegi e sul lungo tempo in cui sono stati goduti, e sul fatto che in questo momento devono esserci quasi duemila donne in grado di guadagnare più di cinquecento sterline l'anno, in un modo o nell'altro, ammetterete che la scusa di mancanza di opportunità, di preparazione, di incoraggiamento, di agio e di denaro non regge più. Inoltre gli economisti ci dicono che la signora Seton ha avuto troppi figli. Naturalmente dovete continuare a far figli, ma, così dicono, solo due o tre a testa, non dieci o dodici.
Virginia Woolf (A Room of One's Own)
Dovunque arrivasse, in questa congiuntura, l’influsso dell’indefinibile sul contegno di Isabel, non si trattava certo del pensiero, anche se non formulato, di una sua unione con Caspar Goodwood; poiché, se aveva potuto opporre resistenza ad esser conquistata dalle grandi mani tranquille del suo corteggiatore inglese, era per lo meno altrettanto lontana dall’esser disposta a permettere al giovane di Boston di prendere esplicito possesso di lei. Dopo aver letto la sua lettera, il sentimento nel quale cercava rifugio era quello di considerare criticamente questo suo esser venuto all’estero; poiché parte dell’ascendente che egli aveva su di lei stava nel fatto che sembrava privarla del suo senso della libertà. C’era un impeto di sgradevole intensità, quasi una crudeltà fisica, in quel suo modo di ergerlesi di fronte. A volte era stata perseguitata dall’idea, dal pericolo, della sua disapprovazione e si era domandata - riguardo che mai per nessun altro aveva avuto in egual misura - se a lui sarebbe piaciuto ciò che lei faceva. La difficoltà stava nel fatto che, più di ogni altro uomo che avesse mai conosciuto, più del povero Lord Warburton (aveva cominciato ormai ad elargire a Sua Grazia il beneficio di questo epiteto) Caspar Goodwood adoperava con lei una energia - ed ella l’aveva già sentita come una forza - che era propria della sua vera natura. Non era per niente questione delle sue qualità; era questione dello spirito che stazionava nella chiara fiamma dei suoi occhi, come una persona che non si stancasse mai di guardar dalla finestra. Le piacesse o no, egli insisteva, sempre, con tutto il suo peso, con tutta la sua forza: anche nei rapporti più comuni con lui, bisognava tener conto di questo. L’idea di una limitazione della libertà era per lei particolarmente sgradevole, ora che aveva appena dato una sorta di risalto alla sua indipendenza guardando senza batter ciglio la grossa esca offertale da Lord Warburton, e riuscendo tuttavia a distoglierne lo sguardo. A volte era sembrato che Caspar Goodwood si schierasse dalla parte del destino di lei, che fosse il fatto più ostinato che ella avesse conosciuto; in tali momenti diceva a se stessa che poteva sfuggirgli per un po’, ma che alla fine doveva venir con lui a patti, e sarebbero stati senza dubbio patti a lui favorevoli. Il suo impulso era stato di valersi delle cose che potessero aiutarla a opporre resistenza a questa costrizione; e quest’impulso aveva avuto gran parte nel suo caloroso assenso all’invito della zia, giuntole in un momento in cui si attendeva di giorno in giorno di vedersi di fronte il signor Goodwood, e in un momento in cui era lieta di avere una risposta pronta per una cosa che lui, ne era certa, le avrebbe detto.
Henry James (The Portrait of a Lady)
L’incanto della costa mediterranea, a conoscerla meglio, non faceva che divenire più profondo per la nostra eroina, poiché era la soglia d’Italia, la porta delle meraviglie. L’Italia, ancora veduta e sentita in modo imperfetto, le si stendeva dinanzi come una terra promessa, come una terra in cui l’amore del bello poteva essere confortato da un sapere senza fine. Tutte le volte che andava per la spiaggia con il cugino - gli era compagna nella passeggiata quotidiana - guardava al mare, con occhi bramosi, verso là dove sapeva che sorgeva Genova. Era contenta, però, di sostare sulla soglia di questa immensa avventura; anche in questi indugi preliminari c’era di che fremere. E poi le faceva l’effetto di un interludio di pace, di un placarsi del tamburo e del piffero in una vita che aveva scarse prove sinora per considerare agitata, ma che nondimeno dipingeva costantemente a se stessa alla luce delle sue speranze, dei suoi timori, delle sue fantasie, delle sue ambizioni, delle sue predilezioni, e che rifletteva codeste accidentalità soggettive in maniera sufficientemente drammatica.[...]Si smarriva in un groviglio di visioni: le cose belle da fare per una ragazza ricca, indipendente, generosa, che in quanto ad occasioni ed obblighi era di larghe, umane vedute, erano un ammasso imponente. Il suo patrimonio divenne perciò, nei suoi pensieri, una parte del suo io migliore; le conferì importanza, le conferì persino, nella sua immaginazione, una certa ideale bellezza. Quel che fece per lei nell’immaginazione degli altri è un altro affare, e a suo tempo dovremo parlare anche di questo punto. Le visioni di cui ho parlato or ora si mischiavano ad altri travagli. A Isabel piaceva di più pensare al futuro che al passato; ma a volte, mentre ascoltava il mormorio delle onde del Mediterraneo, il suo sguardo volava all’indietro. Si fermava su due figure che, nonostante l’aumentare della distanza, erano ancora sufficientemente evidenti; ed erano riconoscibili senza difficoltà come quelle di Caspar Goodwood e di Lord Warburton. Era strana la rapidità con la quale queste potenti immagini erano cadute nello sfondo della vita della nostra signorina. Era proprio della sua natura, sempre, di perder fede nella realtà delle cose assenti; questa fede poteva riconvocarla, in caso di bisogno, con uno sforzo, ma lo sforzo era spesso penoso anche quando la realtà era stata piacevole. Il passato era soggetto ad apparire cosa morta, e la sua resurrezione proiettava quasi una livida luce da giorno del giudizio. Per di più la ragazta non era incline ad ammettere di vivere nella mente altrui: non era così fatua da credere di lasciar tracce indelebili. Era capace di rimanere ferita se veniva a scoprire di essere stata dimenticata; ma di tutte le libertà quella che stimava più dolce era la libertà di dimenticare.
Henry James (The Portrait of a Lady)
«Emigrai», proseguì, «e non rimpiangevo nulla di quello che mi ero lasciato dietro. Fino a quando vi ero rimasto, avevo servito la Russia per quanto era nelle mie forze; dopo averla lasciata continuavo egualmente a servirla, soltanto per il fatto che avevo ampliato la mia idea. Ma, servendola in questo modo, la servivo assai più che se fossi stato soltanto un russo, analogamente a come il francese era allora soltanto un francese e il tedesco un tedesco. In Europa questo ancora non lo capiscono. L'Europa ha creato i nobili tipi del francese, dell'inglese, del tedesco, ma del suo uomo futuro essa non sa ancora quasi nulla. E, a quanto sembra, per adesso non vuole saperne nulla. E si capisce: essi non sono liberi, mentre noi siamo liberi. Soltanto io in Europa, con la mia malinconia russa, ero libero. «Prendi nota, amico mio, di una stranezza: ogni francese può servire non soltanto la sua Francia, ma anche l'umanità, alla sola condizione di rimanere soprattutto un francese; lo stesso l'inglese e il tedesco. Il russo soltanto, anche nel nostro tempo, cioè assai prima che sia stata tirata la somma generale, è stato già dotato della capacità di diventare maggiormente russo precisamente solo quando egli è più europeo. È appunto questa la caratteristica che più essenzialmente ci distingue da tutti gli altri e da nessun'altra parte al mondo, a questo riguardo, le cose stanno come da noi. Io, in Francia, sono un francese, con un tedesco sono un tedesco, con un greco antico sono un greco e con ciò stesso sono al più alto grado russo. Con ciò stesso sono un autentico russo e servo maggiormente la Russia, perché ne propugno il pensiero principale. Io sono il pioniere di questo pensiero. Allora ero emigrato, ma avevo forse abbandonato la Russia? No, continuavo a servirla. Mettiamo pure che in Europa io non facessi nulla, mettiamo pure che mi recassi laggiù, soltanto per vagabondare (e io sapevo che mi recavo laggiù soltanto per vagabondare), ma era sufficiente anche il fatto che mi recavo laggiù, con il mio pensiero e la mia coscienza. Avevo portato laggiù la mia malinconia russa. Oh, non era soltanto il sangue di allora a spaventarmi, e nemmeno le Tuileries, ma tutto quello che doveva seguire. È destino che essi si battano ancora a lungo perché essi sono ancora troppo tedeschi e troppo francesi e non hanno ancora portato a termine il loro compito in questi ruoli. E mi addolorano le distruzioni che avverranno per tutto questo tempo. Al russo l'Europa è altrettanto cara della Russia: gli è cara ogni pietra di essa. L'Europa è la nostra patria altrettanto che la Russia. Oh, di più! Non si può amare la Russia più di quanto la ami io, ma non mi sono mai rimproverato per il fatto che Venezia, Roma, Parigi, i tesori delle loro scienze e delle loro arti, mi sono più cari della Russia. Oh, ai russi sono care queste vecchie pietre straniere, questi miracoli del vecchio mondo del Creatore, queste schegge di sacri miracoli; e ciò ci è addirittura più caro che a loro stessi!
Fyodor Dostoevsky (The Adolescent (Vintage Classics))
Poiché il mondo è così pieno di morte e d'orrore, io cerco continuamente di confortare il mio cuore e di cogliere i bei fiori che sbocciano in mezzo a questo inferno. Trovo piacere e dimentico per un'ora l'orrore. Ma non per questo esso cessa d'esistere." "Hai detto molto bene. Dunque tu ti trovi nel mondo circondato di morte e d'orrore e per sfuggire ad esso cerchi il piacere. Ma il piacere non dura e ti rilascia poi nel deserto." "Si, proprio così." "Così avvenne alla maggior parte degli uomini, ma pochi lo sentono con la tua forza e con la tua veemenza, e pochi hanno il bisogno di rendersi conto di questi sentimenti... oltre a questo, non hai sperimentato qualche altra via?" "Oh sì, certo. Ho provato la via dell'arte." "Ma quale fu per il frutto, il significato dell'arte?" "Fu il superamento della caducità. Vidi che della farsa e della danza macabra della vita umana qualcosa rimaneva e durava: le opere d'arte. Certo anch'esse un giorno o l'altro passano, bruciano o si rovinano o vengono distrutte. Ma ad ogni modo durano parecchie generazioni e formano al di là del momento un quieto regno d'immagini e di cose sacre. Collaborare a questo mi pare un bene e un conforto, poiché è quasi rendere eterno ciò ch'è transitorio." "Questo mi piace molto, Boccadoro... Io credo però che con la tua definizione tu non hai esaurito ciò che vi è di meraviglioso nell'arte. Credo che l'arte non consista solo nello strappare alla morte e portare a più lunga durata, con la pietra, col legno e coi colori, qualcosa che esiste ma è mortale." "Hai ragione", esclamò Boccadoro con fervore, "non avrei creduto che tu conoscessi l'arte così a fondo! L'immagine originaria di una buona opera d'arte non è una figura reale, viva, quantunque questa possa esserne l'occasione determinante' L'immagine originaria non è carne e sangue, è spirituale. È un'immagine che ha la sua dimora nell'anima dell'artista." "Molto prima che una figura artistica diventi visibile e acquisti realtà, essa esiste come immagine nell'anima dell'artista! Questa immagine dunque, questa immagine originaria è esattamente ciò che gli antichi filosofi chiamano 'idea'". "Ebbene, .. ammetti che fra la confusione e i dolori di quel campo di battaglia che è la vita, in questa danza macabra senza fine e senza senso dell'esistenza corporea, esiste lo spirito creatore. .. Questo spirito in te non è quello di un pensatore, è quello di un artista. Ma è spirito, ed esso ti mostrerà la via per uscire dal torbido garbuglio della vita dei sensi, dalla eterna alternativa fra piacere e disperazione." In quel momento parve a Boccadoro che la sua vita avesse acquistato un senso, come se egli la guardasse dall'alto e ne vedesse chiaramente le tre grandi tappe: la dipendenza da Narciso, la liberazione - il periodo della vita libera e vagabonda - e il ritorno, il riposo, l'inizio della maturità e del raccolto. ... Ma egli aveva trovato finalmente con Narciso il rapporto che gli conveniva, non più di dipendenza, ma di libertà e di reciprocità. Poteva ormai essere ospite di quello superiore senza umiltà poiché l'altro aveva riconosciuto in lui il suo pari, il creatore.
Hermann Hesse (Narcissus and Goldmund)
Pur essendosi ormai rassegnata a tenere il cappello fermo con la mano destra, con la quale reggeva pure l’ombrellino e una piccola borsa di velluto blu, Miss Portland procedeva spedita, lo sguardo fisso a terra, ormai a pochi metri dal calesse di Maylon. E lo avrebbe superato senza prestare alcuna attenzione, né all’uomo che lo guidava né al cavallo che lo tirava, se l’ottavo conte di Maylon non ne fosse smontato con un salto e non le si fosse parato davanti sbarrandole la strada. «Miss Portland, è un piacere insperato incontrarvi.» Sophie sussultò e sollevando lo sguardo si trovò di fronte quell’uomo. Che nelle ultime due settimane tante volte era riuscita abilmente a evitare. Lo fissò senza nascondere la propria sorpresa e, con un semplice «Lord Maylon» e una frettolosa riverenza, si apprestò a proseguire il proprio cammino. Tentativo sprecato, perché lui, di nuovo, le si parò davanti. Che cosa voleva da lei? «Ho appena fatto visita alla vostra madrina, illudendomi di incontrarvi, Miss Portland. Ma è evidente che non ho avuto questa fortuna. Così, quando vi ho vista, ho sperato che mi avreste fatto l’onore di lasciarvi ricondurre a casa.» La mano ancora sul cappello, il pericoloso ombrellino puntato verso di lui come una lancia in resta, Sophie socchiuse gli occhi come per osservarlo meglio e, senza giri di parole, gli chiese: «Per quale ragione, Lord Maylon, vorreste ricondurmi a casa, quando sono quasi arrivata?» *** Tutte le risposte che vennero alle labbra di sua signoria non avrebbero potuto essere riferite a Sophie senza il ricorso a imbarazzanti spiegazioni. Se le avesse detto che voleva riaccompagnarla a casa per poter rimanere finalmente solo con lei, anche se per pochi minuti, avrebbe dovuto spiegarle anche il perché di quel desiderio. Avrebbe dovuto confessarle che da quando si erano incontrati non faceva che pensare a lei. Con un’intensità fastidiosa e insistente, tanto da non essere più riuscito a guardare né tantomeno a toccare un’altra donna. No, questa spiegazione era fuori luogo, l’avrebbe scandalizzata: era una debuttante, dopo tutto. Avrebbe potuto dirle che voleva respirare il suo profumo, che sapeva di mughetti e viole, gioire del suo sorriso coinvolgente e pericolosamente sensuale, sentirsi circondato dalla vitalità e dal calore che il suo corpo sprigionava, ascoltare la sua voce e perdersi nei suoi occhi. Scartò anche questa ipotesi, ritenendo che tale risposta avrebbe potuto apparire a Miss Portland non solo esagerata ma del tutto sciocca. Quindi, con tono rude e sguardo severo, si limitò a fornirle più che una sola motivazione, un intero elenco di ragioni inappuntabili. «Primo, perché è tardi, Miss Portland, e Lady Rumphill era molto preoccupata che non foste ancora rientrata a casa. Secondo, perché la borsa che portate è talmente pesante che, se non ve ne liberate subito, domani avrete difficoltà a muovere le braccia... a proposito, quando contate di leggere tutti quei libri, Miss Portland?... e, terzo, perché altrimenti finirete col perdere quel delizioso cappello di paglia che a quanto pare non vuole rimanervi sulla testa. Forse perché la vostra testa è talmente dura da scoraggiare anche un cappello. Allora, salite o devo convincervi in altro modo?» «È questo che pensate della mia testa, my lord?» gli rispose lei, le labbra arrotondate in un Oh! oltraggiato. «Questo, e molto altro.» «Non oso davvero chiedervi cosa intendiate per molto altro, ma presumo sia meglio evitare di darvi quest’ulteriore soddisfazione.» E mentre diceva queste parole, docile docile Miss Portland gli permise di aiutarla a salire sul calesse, mentre lui, pur sorpreso dalla resa di lei, ancora sogghignava per quella risposta tagliente. ***
Viviana Giorgi (Zitta e ferma Miss Portland!)
e quando ce lo domandiamo ("Ma tu perché mi ami?") e stiamo a sentire la risposta, rimaniamo per forza un po' delusi, quasi vorremmo replicare: "Dài che puoi fare di meglio, dimmi chi sono", perché non è di semplici complimenti, per quanto sinceri, che in quel momento andiamo alla ricerca, ma qualcosa di più intimamente effimero che ci descriva nell'immaginazione dell'altro.Vogliamo che la persona che amiamo ci dica d'essersi innamorata di noi perché un giorno, senza neanche pensarci, l'abbiamo toccata in un punto in cui non sapeva di essere sensibile, come certe carezze che arrivano molto in fondo per conto loro."Ti amo perché ti gratti il polso in quel modo tutto tuo", questo per esempio vorremmo sentire, piuttosto che "Ti amo perché sei generoso e affidabile".C'innamoriamo di minuzie, di riflessi in cui vediamo l'altra persona come pensiamo che nessuno l'abbia mai vista e mai la potrà vedere, e custodiamo questi attimi di unicità in forma d'immagine, anche se negli anni sbiadisce; ma è a quell'immagine che chiediamo aiuto quando il nostro sentimento vacilla e dubitiamo di amare, allora la richiamiamo, e ci basta...
Diego Da Silva
Nora guardava la fotografia senza emettere un suono. No, disse alla fine, le sue parole erano quasi impercettibili, soffocate dall'emozione, a Nora non sembrava necessario, gli occhi fissi sulla foto, le bastava quanto lei gli aveva detto, e con il dito toccò il volto di Luz nella foto, e questa fotografia: è Liliana, gli stessi occhi, lo stesso modo di mettersi in posa. Finalmente Nora poté staccarsi dalla foto, guardò Delia e, con la voce più ferma: "Questa notizia, così inaspettata, mi riempie di gioia. Non mi servono prove. Credo che Luz sia mia nipote. Ma se crede che per lei possa essere importante, non ho nessun problema a fare le analisi." "Ti posso abbracciare?" le chiese Delia. "Sono molto emozionata. É la prima volta che ritroviamo una Nonna.
Elsa Osorio (I vent'anni di Luz)
In certi libri ci sono passi in grado di penetrarci così a fondo che non possiamo più scordarli, non tanto per la bravura dell'autore quanto perché "la vicenda pare scorrere per conto suo", quasi "si fosse scritta da sé". Simili passi ci rimangono nella mente, o nel cuore - o comunque tu voglia chiamarlo - non tanto come portentose creazioni di un mastro artigiano quanto come momenti teneri, strazianti e dolorosi, che ricorderemo per anni e addirittura oltre alla stregua dei periodi d'inferno (o paradiso) che viviamo realmente. Quindi, vedi, se fossi un eccellente maestro della parola invece che l'ultimo arrivato tra i rubricisti, sarei sicuro che questa è una delle pagine della mia opera intitolata Rüya e Galip che potrebbero rimanere in mente per anni ai miei sensibili e intelligenti lettori. Ma è un tipo di certezza di cui non dispongo. È per questo che su questa pagina, caro lettore, vorrei lasciarti solo con i tuoi ricordi. E il modo migliore per farlo sarebbe suggerire al tipografo di coprire del tutto le pagine successive con un inchiostro nero. In modo che potessi essere tu a usare la tua fantasia allo scopo di creare ciò a cui io non so rendere giustizia con la mia prosa. E, per descrivere il nero del sogno in cui mi sono trovato sprofondato nel punto in cui ho interrotto la mia storia, ricordati il silenzio da cui è stata inondata la mia mente nel corso delle successive vicende, che ho vissuto come fossi sonnambulo. Considera dunque le pagine che seguono, le pagine nere, alla stregua dei ricordi di un sonnambulo.
Orhan Pamuk (The Black Book)
Scivolo a terra e mi siedo, faccio vagare lo sguardo per la stanza buia cercando in ogni modo di concentrarmi e pensare, ma ho la testa piena di bolle di sapone che si gonfiano ed esplodono ripetutamente. A pochi centimetri di distanza, oltre il legno compatto che ci separa, lo sento respirare profondamente. Mi sembra quasi di poter avvertire il brivido tiepido del suo fiato sulla pelle. Abbasso le palpebre e immagino che si sia inginocchiato e si trovi proprio alla giusta altezza per appoggiare le mani in corrispondenza delle mie spalle, seppur dall’altra parte della soglia. Fingo di avvertirne il contatto, m’illudo che il suo calore possa attraversare la porta e riesca ad arrivare a toccarmi. «Kiki, io ti amo da morire.» Mi rannicchio circondandomi con le braccia e appoggio la testa all’angolo tra le due pareti. Vorrei strapparmi le orecchie per non udire un’altra parola, vorrei colpirlo fino a farlo sanguinare, vorrei smettere di essere razionale e fregarmene di tutto, semplicemente tornare da lui.
Giulia Anna Gallo (Il mio ricordo di te)
Chi ha un'autentica vocazione all'Eros, ne scrive comunque, in ogni modo: un diario regolare, spesso nascosto, o appunti in cifra, quasi un codice segreto e personale, note tracciate magari sull'agenda, confuse con le cose da fare durante il giorno. Succede quando l'Eros ha un significato che si fonde con le abitudini, il modo un cui si vive.
Alberto Bevilacqua
21 Aprile 2015 Sono così confuso, non capisco che direzione stia prendendo la mia vita. I miei coetanei sembrano così felici, assorti nei loro pensieri, nelle loro cose, nella futilità. Mi chiedo come facciano ad essere così spensierati mentre il mondo qui fuori è pieno di iniquità, di follie. Tutto ciò mi rende continuamente infelice, ogni singolo giorno torno a casa, mi stendo sul letto e scendono le lacrime. L'umanità è un crimine contro l'umanità. Questo mondo è diventato un inferno. Io ho paura di vivere qui. Vorrei prendere tra le redini questa situazione e cambiare qualcosa, dare qualcosa di significativo a oquesto mondo. Ma cosa? Ho bisogno di tanta forza, tutta quella che mi manca. Coraggio. Dove si trovano queste virtù che non mi sono familiari? Sono una nullità. Ho fallito. Non sono nessuno. È un urlo che si propaga dentro di me ed è sordo agli altri. Potrei essere una persona migliore. Vorrei. Potrei. Come si fa? Mi giro e in ogni angolo c'è un punto interrogativo gigantesco, lo specchio di quello che grava sulla mia testa. Frequento l'università, come tanti altri. Seguo i corsi attentamente, poi mi fermo e mi domando: a cosa serve? Ci sono così tante cose da fare nella vita, cose importanti. Difendere gli ideali, proclamare la libertà, sconfiggere il male. E noi siamo qui: fermi, inerti, disinteressati, senza voglia alcuna, scarsa partecipazione, complici di questo mondo (io in primis). Forse avrò sbagliato strada, ma non mi importa, l'ho fatto per difendere il mio ideale, a modo mio. Porbabilmente andrò all'inferno, come voi volevate. Beh, vi ho accontentati. Mi è stata risucchiata la gioia dall'intimo del mio essere, non mi è rimasto (quasi) nulla, ma continuo a lottare, a scrivere, ad esprimermi in ogni forma, con ogni mezzo. In questi ultimi anni ho sofferto particolarmente, il dolore è diventato mio amico, è sempre accanto a me. Non l'ho deciso io, è lui che cerca me. A questo punto posso dire che, nonostante la mia parvenza da ventenne, ho sviluppato lo spirito di un ottantenne. Lo percepisco costantemente, mi sussurra parole indecifrabili, mi spinge ad ascoltarlo. Sento che c'è, ma è così in profondità, lontano e nascosto. Accumulare esperienza, ma non farne tesoro; formulare ipotesi, ma essere incapaci di agire; è lo scenario di una tragedia greca, un conflitto interiore. Nessuna soluzione. Non esiste. Non arriverà mai. Angoscia. Dubbio. Desolazione. Turbamento. Potenzialmente potrei brillare, illuminare questo mondo, ma non ne sono capace. Manca lo stimolo, la spinta, il carburante. Dove si va?
Nicola Parretta
«Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.» ... «Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»
Carlos Ruiz Zafón (The Shadow of the Wind (The Cemetery of Forgotten Books, #1))
Prendo il suo viso tra le mani e lo bacio. Lo sento sorridere sulla mia bocca mentre i miei denti gli mordono il labbro inferiore. Il mio cuore batte così forte che posso sentirne il suono. Nick poggia la mano all'altezza del mio cuore. «Batte veloce quasi quanto il mio.» «Ci verrà un infarto.» «Se dobbiamo morire, moriamo nel modo migliore.» «E quale sarebbe il modo migliore per morire?» «Facendo l'amore con te.»
Antonella Pellegrino (Per una scommessa)
Aveva l'espressione di un astronauta fluttuante nello spazio a cui si è sganciato il cavo e ha una sola possibilità di afferare una corda di salvataggio o di vagare per sempre nel nero infinito. Conoscevo quella sensazione, il panico che sembrava allungare il tempo, che trasformava i secondi in anni, e il dolore di essere feriti non da una persona, ma da molte, una banda di bulli che cresceva fino a includere il tuo quartiere e poi tutta la comunità, fino a spingerti a mettere in dubbio il mondo intero. E l'ultimo pensiero mentre allungavi il braccio fin quasi a sfiorare quella corda di salvataggio è in che modo, se fossi sopravvissuto, avresti potuto riparare quello che si era rotto, per poter dire che sì, volevi di nuovo essere parte di quel mondo.
Lissa Price (Starters (Starters, #1))
XLVI Devido à guerra prolongada, Ao agravamento dos impostos, Enorme migração foi notada, Pr´o Brasil iam quasi todos…! O Conde de Ericeira, do nada… Vai renovar o País, a seus modos, De Duarte Ribeiro de Macedo Usa as ideias qual rochedo!
José Braz Pereira da Cruz (Esta é a Ditosa Pátria Minha Amada)
Il tramonto è uno spettacolo per tutti. Per un orfano tormentato dai dubbi assume un potere evocativo quasi doloroso. Mamma è la prima persona che mi viene in mente osservando l'orizzonte incendiarsi e gettare riflessi dorati sull'intera pianura. Mamma, così lontana, che non incontrerò mai. La seconda persona a cui penso è papà, che invece incontrerò nei prossimi giorni per riferirgli di questa nuova difficoltà. Poi la mente va a Marta e Irene, le immagino stese a letto con un libro sulle ginocchia. Chi vive nelle metropoli deve cercare il cielo nei ritagli prospettici non ipotecati dai grattacieli, non può capire la grandiosità di un orizzonte spalancato sulla giornata che finisce, il modo in cui questa bellezza ci impone di indagare chi siamo. E il silenzio. La qualità di questo silenzio: ha una consistenza quasi materiale, lo posso sentire come un tessuto sotto le dita.
Simone Marcuzzi (Ventiquattro secondi)
Sono incappato in una fotografia di Matteo Renzi che giocava a pallone sotto il sole con i suoi figli a torso nudo. Purtroppo per lui, in una società dove molto si basa sull’immagine, dove chi è bello e curato ha più possibilità di emergere nel lavoro e nelle piccole cose di tutti i giorni, quella pancia così prorompente, così abbondante, si scontra con la sua ricerca strategicamente quasi perfetta del potere assoluto. La camicia con le maniche tirate su e la cravatta, ma senza giacca, la campagna condotta con uno slogan all’americana in stile Obama, il modo di parlare e gesticolare, la scelta del look a seconda delle occasioni (indimenticabile quello proposto ad «Amici», dove si è presentato con il «chiodo»): tutto per lui è comunicazione, per colpire, per piacere, per vincere. Ma niente può comunicare come il corpo.
Fabrizio Corona (Mea Culpa: Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me (Italian Edition))
La prima volta che aveva avuto il ciclo, all’età di dodici anni, la madre le aveva detto che il senso di quel sangue era “la sicurezza dei figli”. Nella non aveva mai pensato ci fosse molto di cui sentirsi sicuri a giudicare dalle urla, nel villaggio, delle donne in travaglio, a volte seguite da un corteo dietro a una bara. L’amore era molto più nebuloso di qualche macchia su uno straccio di lino. Il ciclo non le era mai parso legato a ciò che lei sospettava significasse la parola amore, che aveva a che fare sì col corpo, ma andava anche oltre. “È amore, Petronella,” aveva detto la signora Oortman osservando il modo in cui Arabella stringeva a sé Occhionero ancora cucciolo, fino quasi a togliergli la vita. Quando cantavano l’amore nel villaggio, i musicisti parlavano in effetti del dolore che la ricompensa nascondeva. Il vero amore era un fiore nella pancia, con i petali che uscivano fuori. Per amore si rischiava tutto: era uno stato di beatitudine mai privo di perle di sgomento. La signora Oortman si era sempre lamentata che non c’erano pretendenti abbastanza buoni nel giro di miglia e miglia, “mangiafieno” definiva i ragazzi del circondario. La città, e Johannes Brandt, racchiudevano il futuro di sua figlia. “Ma l’amore, madre. Lo amerò?” “La ragazza vuole l’amore,” aveva gridato in modo teatrale la signora Oortman alle pareti scrostate di Assendelft. “Vuole le pesche e anche la panna!
Jessie Burton
Gli adulti sanno che smarriscono un pezzo di se stessi, quando si trovano a dover affrontare situazioni che, prima di verificarsi, erano fuori da ogni immaginazione. La superficie su cui poggia la loro personalità si incrina. E, tuttavia, adattarsi è l’unica reazione giusta, perché assicura la sopravvivenza. I bambini agiscono in modo più intuitivo. Io ero intimidita, non opposi resistenza, cominciai bensì a sistemarmi, per il momento, solo per una notte. A pensarci oggi, mi pare quasi sconcertante il modo in cui il panico lasciò il posto a un certo pragmatismo. Come capii alla svelta che supplicare non aveva senso e che ogni parola sarebbe scivolata via su quel giovane uomo. Come intuii istintivamente che dovevo accettare la situazione, se volevo superare una notte infinita in quella cantina.
Natascha Kampusch (3096 Days)
Niente è solo nero o solo bianco. E nessuno è soltanto buono o cattivo. Ciò valeva anche per il rapitore. Queste sono frasi che non si ascoltano volentieri quando sono pronunciate dalla vittima di un rapimento. Perché così viene meno lo schema ben definito di Bene e Male che utilizziamo volentieri per non perdere l’orientamento in un mondo pieno di sfumature grigie. Quando parlo di questo, sul volto di qualche estraneo mi pare di vedere irritazione e rifiuto. L’empatica partecipazione al mio destino provata fino a quel momento, si raggela e si trasforma in rigetto. Le persone che non hanno alcuna idea di cosa significhi davvero essere prigionieri, mi negano la facoltà di giudicare le mie esperienze usando una sola espressione: sindrome di Stoccolma. “Con Sindrome di Stoccolma s’intende un fenomeno psicologico, per cui un ostaggio instaura un rapporto emotivamente positivo con i suoi sequestratori. Questo può implicare che la vittima simpatizzi con i criminali e cooperi con loro” – così sta scritto nel dizionario enciclopedico. Una diagnosi che io rifiuto decisamente. Perché, per quanto gli sguardi di coloro che buttano là questo concetto possano essere pieni di compassione, l’effetto è terribile. Questo giudizio rende la vittima, infatti, due volte vittima, perché la priva dell’autorità di interpretare la propria storia; gli avvenimenti più importanti della sua esperienza vengono così liquidati come le aberrazioni di una sindrome. E proprio quel comportamento, che ha contribuito in modo decisivo alla sopravvivenza del prigioniero, viene giudicato quasi sconveniente. Avvicinarsi a un criminale non è una malattia. Crearsi un bozzolo di normalità nell’ambito di un crimine non è una sindrome. Al contrario. È una strategia di sopravvivenza in una situazione senza via di uscita, ed è più fedele alla realtà di qualsiasi piatta categorizzazione dei criminali in bestie sanguinarie e delle vittime in agnelli indifesi, davanti alla quale la società si ferma volentieri.
Natascha Kampusch (3096 Days)
«Solo che… ho litigato con Boar. È stato così carino con me. Quasi troppo dolce e gentile, e sono entrato nel panico.» Tank gli scostò i capelli dal viso con una gentilezza bizzarra per le sue dita grosse. «Perché hai reagito in quel modo? Avrai capito che gli piaci. Se non ricambi, ci sono modi più gentili di dirlo.» «Mi piace, e parecchio anche, e so che non dovrei provare niente di simile. Perché voi siete un gruppo, ma per me questo viaggio finirà.» Fissò il volto di Tank, cercando disperatamente di concentrarsi sugli occhi e rendere l’immagine chiara anche senza occhiali. «Sono così geloso di quello che avete.» Tank espirò e gli accarezzò una guancia. Era solamente la sua immaginazione, o si era avvicinato ancora di più? «Che cosa abbiamo?» «Siete sempre presenti l’uno per l’altro. La vostra relazione si basa sulla fiducia. Quando sono con voi, mi sento protetto, ma so che è una situazione temporanea e non voglio illudermi. Così, quando Boar mi ha confessato quanto gli piacessi, ho dato di matto. Gli ho detto cose terribili per respingerlo. Non so come farmi perdonare, ma non mi va nemmeno di essere costretto a chiedergli scusa. È come se avessi una sorta di peso nel petto che mi impedisce di rialzarmi. Devi guadagnartelo, Clover. Se vuoi migliorare le cose, dovresti cominciare con l’ammettere i tuoi errori e scusarti con Boar.»
K.A. Merikan (Their Bounty (Four Mercenaries, #1))
Nonostante avesse la mente confusa, dopo tutto quel piacere, Clover notò lo stesso Tank che accarezzava il braccio di Drake. L’intimità insolita di quel gesto gli rese impossibile distogliere lo sguardo, e quasi si strozzò quando si accorse che non aveva mai visto nessuno toccare Drake. Non in un modo affettuoso, né una pacca amichevole sulla schiena. La cosa ancora più incredibile fu vedere Drake, che in un primo momento si era irrigidito, cercare la mano di Tank per intrecciare le loro dita. Con l’altra mano Drake lo strinse a sé, abbracciandolo e restando con il bacino incollato al suo culo. «È stato… incredibile,» disse il mercenario, sollevando la testa per incrociare il suo sguardo, anche se non lasciò andare la mano di Tank, come se quell’incontro avesse abbattuto la barriera contro cui lottava da tempo. Forse… con lui come collante tra di loro, esprimere quello che provavano sarebbe diventato più semplice per tutti
K.A. Merikan (Their Bounty (Four Mercenaries, #1))
. «Preferisci questo all’essere legato?» Clover lo fissò con sguardo affettuoso. «Mi piacciono parecchie cose. Mi piace cambiare. Amo quando mi leghi. Mi sento così… leggero e senza pensieri. Scacci il passato e il presente, e mi lasci vivere in quel momento. Sei sexy quando hai il controllo della situazione, ma mi piaci anche così e a volte immagino che mi scopi in questo modo. Con violenza mentre ti tocco, porto le mani tra i tuoi capelli, contro la tua pelle.» Drake deglutì rumorosamente e incrociò lo sguardo di Clover, nonostante la mano invisibile che cercava di tenerlo lontano dalla superficie, dove la luce del ragazzo non poteva avvolgerlo con il suo calore. «Mi… mi spaventa.» «Va tutto bene. Mi piaci sempre. Anche se non ti va, non è un problema. Comunque, non mentirò, mi hai eccitato parecchio.» Clover inarcò i fianchi sotto di lui, spingendo l’uccello contro il suo inguine. Drake quasi si strozzò, ma tenne a bada quella sensazione di disagio e gli strinse il volto, tenendolo fermo per un bacio che gli fece vedere i fuochi d’artificio. Desiderava realizzare i sogni di Clover, dargli tutto ciò che meritava. «Sai che sono sempre arrapato per te. Voglio divorarti.» Clover allargò le gambe, permettendogli di mettersi comodo. «Sarò tuo ogni volta che vorrai.» «Anch’io. Sono tuo, intendo,» disse Drake, ammirando il viso di Clover circondato da quell’aureola di capelli candidi. Nonostante la pelle bollente, sentì delle fitte gelide come aghi di ghiaccio, che lo assalirono in segno di avvertimento. Lo stomaco e i muscoli si irrigidirono, il corpo si preparò a scappare, ma sapeva anche che Clover non gli avrebbe mai fatto del male. Poteva fidarsi di lui
K.A. Merikan (Their Obsession (Four Mercenaries #2))
«Vi amate. Lo ami davvero? Gesù, J!» «Cosa? Un gay non può innamorarsi?» «Jack, non c'entra niente! Lui è un Hayes, porca miseria! Non ricordi quello che Gerald Hayes ha fatto a papà? Ha falsificato dei documenti, ha mentito sull'acquisto dei terreni, è uscito dalla società a suon di assegni e ha lasciato papà in mezzo a una strada! Ti sei dimenticato quello che Gerald ha fatto a mamma?» Riley aveva sentito abbastanza. Spalancò la porta e si ritrovò davanti i due fratelli impegnati in un furioso alterco. «Come ho già detto a tua sorella, Josh, io non sono mio padre.» Rimase in attesa, finché Josh non sembrò essersi calmato. «Tuo fratello e io... siamo felici. Vogliamo far funzionare le cose. Abbiamo il tuo sostegno?» Josh serrò brevemente le palpebre, ma non abbastanza in fretta perché Riley non notasse il conflitto che gli albergava negli occhi. Alla fine, li aprì di nuovo e annuì, attirando a sé il fratello per abbracciarlo. «Merda. Se sei felice, lo sono anch'io, ragazzo. Lo sei?» Riley rimase a guardare mentre i due fratelli si abbracciavano, e qualcosa dentro di lui si spezzò. Jeff non lo aveva mai stretto a quel modo: per dargli sostegno, per proteggerlo, perché lo amava. Come si faceva tra fratelli. «Sono felice,» Jack rassicurò Josh. Dannazione, sembrava quasi convinto
R.J. Scott (The Heart of Texas (Texas, #1))
Sorpassò i detriti del primo fienile e lo sguardo gli cadde sul nero carbone del legno bruciato. La testa gli si riempì di immagini di quella notte, di quanto Jack si fosse preoccupato per lui, di quanto Riley l'avesse spaventato. Tutto si mescolò con i sentimenti che stavano sbocciando nel suo cuore: brama, bisogno, desiderio... amore. Non poteva amare un uomo. Non era gay, non lo era mai stato, e non sapeva proprio cosa pensare. Riley girò l'angolo: la facciata del vecchio fienile rosso incombeva nella luce morente della sera. Ancora non c'era traccia di Jack. Avrebbe voluto chiamarlo, ma non voleva neanche dargli il tempo di scappare, perché, dannazione, Jack doveva ascoltare ciò che aveva da dirgli. Quando scorse il marito, quasi cadde in ginocchio, disgustato di se stesso. Quell'uomo forte e orgoglioso se ne stava seduto nella paglia, la testa della puledra in grembo mentre le sussurrava dolci nonnulla. Per poco non si gettò ai suoi piedi, implorando perdono. Invece, quello che doveva fare era far capire a Jack perché gli aveva parlato in quel modo.
R.J. Scott (The Heart of Texas (Texas, #1))
Mancava qualcosa. Sapeva che le cose erano cominciate in modo orribile, col peggior piano della storia (ricattare Jack per costringerlo a sposarlo), ma ora erano migliorate. Non era così? Erano scivolati in una routine sensuale, appassionata e inesplorata. Riley si sentiva amato e apprezzato. Solo che... Jack sarebbe mai riuscito a fidarsi di lui? Ad amarlo davvero? Nella sua mente, Riley era già innamorato di Jack, in un certo senso. Era incredibile quanto il cowboy lo facesse sentire diverso, quasi speciale
R.J. Scott (The Heart of Texas (Texas, #1))
«Non mi sarei mai aspettato di amare un uomo,» mormorò il giovane, alzando la testa: aveva l'aria stanca, gli occhi arrossati, le ciglia appuntite e incrostate di lacrime. Jack allora capì quanto si stesse realmente esponendo, in senso letterale e metaforico. Tutto ciò che il suo sposo aveva da dare era proprio lì, davanti ai suoi occhi. «Credevo di non poterlo fare, che fosse impossibile,» aggiunse, apprensivo, posando una mano sulla guancia di Jack. Jack si voltò a baciargli il palmo per poi sfregarvisi come un gatto, le palpebre dischiuse. «Ma di tutte le cose sbagliate a questo mondo...» S'interruppe. «Jack, questa è giusta. È così che ci si sente? Tutta questa felicità?» «Riley, non posso dirti cosa provare, so solo che è come se ti stessi aspettando da tutta la vita.» Fece un passo avanti, toccandolo pelle a pelle. Percepì le sue lacrime sulle labbra e assaporò il suo più intimo calore, mentre approfondiva il bacio. Percorse con le mani la linea dei fianchi e lo circondò, fermandosi sulla curva del fondoschiena. Una la tenne lì, mentre con l'altra gli sfiorò i capezzoli inturgiditi. Riley sospirò nel bacio. Non avevano molto tempo, ma Jack aveva bisogno che il marito gli ricordasse ciò che aveva, più dell'aria che respirava. Una sferzata di passione gli impose di spingersi contro Riley, prima in modo quasi impercettibile, poi sempre con maggiore insistenza. Non avevano nulla: niente lubrificante, nessuna preparazione per fare l'amore nella loro stalla
R.J. Scott (The Heart of Texas (Texas, #1))
Non sono mai stato così ossessionato da un bacio prima d’ora, ma il mio cervello è come un disco rotto ultimamente. Inconsciamente, sento che mi sto avvicinando e, con mia sorpresa, anche Adam lo sta facendo. L’approccio da parte di entrambi è lento e misurato, come se temessimo di far paura all’altro. Il suo alito odora di cioccolata mentre si avvicina al mio viso e le mie mani iniziano a tremare. Invio una muta preghiera a qualunque divinità che mi venga in mente perché Adam torni in sé solo dopo aver avuto modo di baciarlo e sapere cosa si provi, almeno per un paio di secondi. Quando le sue labbra si poggiano finalmente sulle mie, è come se una scarica elettrica corresse per tutte le mie terminazioni nervose. Poi, emette un suono sommesso, apre le labbra e il cuore quasi mi esplode fuori dal petto. Il bacio è dolce e cauto, con la sua lingua che passa sulle mie labbra, cercando di entrare. Apro la bocca per lui senza esitazione, avvolgendogli le braccia attorno al collo, schiacciandomi su di lui. Sembra che la mia pelle sia l’unica in grado di contenermi, impedendomi di scoppiare in milioni di fasci di luce. Le sue mani scorrono con dolcezza sul mio corpo. Non nel modo rude e pretenzioso a cui sono abituato, ma con reverenza. Ogni suono ansimante che esce dalle sue labbra scava nel mio cuore per trovare dimora. Adam allontana le labbra dalle mie e gemo in protesta. Posa la sua fronte sulla mia, ed entrambi cerchiamo di riprendere fiato.
K.M. Neuhold (From Ashes (Heathens Ink #3))
Non ho mai pensato che avrei avuto l’occasione di tenere per mano un altro uomo,» mormorò. Girò a palmo in su la mia mano e intrecciò le nostre dita, come se stesse memorizzando tutto. Aggrottò le sopracciglia come se avesse altro da dire ma avesse difficoltà con le parole, così sollevai le nostre mani e gli baciai le nocche. Poi gli girai la mano e gli baciai l’interno del polso, e lui sussultò leggermente. «Quello che hai detto prima,» iniziò. Aveva le guance arrossate, e si leccò le labbra in modo nervoso. «Quando ho visto quei due tizi che si baciavano… hai detto…» Le sue parole persero forza, ma lui era talmente nervoso e timido che era quasi doloroso da guardare. Ero piuttosto sicuro di sapere cosa stesse cercando di dire. «Ho detto che se volevi che il tuo primo vero bacio fosse con me, io ero d’accordo.» Lui annuì rapidamente e sospirò forte prima di fare una risata. Si passò la mano libera tra i capelli corti. «Io, ehm…» «Vuoi che ti baci?» I suoi occhi scattarono sui miei, spaventati e speranzosi. Poi annuì di nuovo. «Sì.»
N.R. Walker (A Soldier's Wish)
«Guardarti ballare sotto la pioggia da solo, libero da qualsiasi preoccupazione… penso di essermi innamorato di te proprio in quel momento.» Si scostò per guardarmi negli occhi. «Davvero?» Annuii. «Sì, ho pensato: “Quest’uomo, quest’uomo bellissimo, deve essere mio.”» Richard tornò a rannicchiarsi contro di me. «Lo sono. Sono tuo.» Strinsi la presa su di lui. «Lo so. E io sono tuo.» Dopo un istante, Richard disse: «Mi sono innamorato di te non appena ti ho visto in quella tavola calda.» Ridacchiai. «Me lo hai scritto in una lettera» «È la verità. Mi hai chiesto se potevi sederti, e io ho alzato lo sguardo sulla faccia più bella che avessi mai visto. Con occhi nei quali avrei potuto perdermi e un sorriso molto gentile.» Rimase in silenzio per un istante. «O forse è stato quando hai fatto l’amore con me quella prima volta. Il modo in cui ti muovevi dentro di me. Non sapevo che gli uomini potessero amare in quel modo. Oppure è successo quando ho ricevuto la tua prima lettera, quando ero oltreoceano. Oppure, ancora, ogni lettera. Penso di essermi innamorato di te un po’ di più a ogni lettera che mi arrivava. Ma poi c’è stato quel momento in cui sei entrato in ospedale per la prima volta; avevo quasi perso la speranza, ma tu sei entrato. E quando mi hai visto, l’ho capito. Ho capito dall’espressione sulla tua faccia che non ci sarebbe mai stato un altro uomo per me.» Tirai il suo viso verso il mio e lo baciai, cercando di dirgli ciò che non riuscivo a esprimere a parole. Quando il bacio rallentò per poi interrompersi, lo attirai tra le mie braccia. «Ti amo,» dissi. «E sono così contento che tu sia qui.»
N.R. Walker (A Soldier's Wish)
«Mi piace quando mi accarezzano i capelli,» mormora, chiudendo gli occhi. «Non ti fermare.» Percepisco distintamente il rumore di qualcosa che si crepa. È come se fossi riuscito in qualche modo a intaccare la corazza che lo circonda, lasciando che una flebile lama di luce faccia capolino in mezzo all’oscurità. Pallida e quasi inesistente, certo. Eppure reale e forse destinata ad aumentare e diventare più forte nel corso del tempo.
Sara Coccimiglio (Come il giorno e la notte)
Khalon lo mise in piedi ma non si spostò, quindi Riley finì quasi premuto contro di lui, le mani ancora in quelle di Khalon. Era tutto lineamenti squadrati e muscoli forti, la mascella ispida gli fece venire voglia di mordicchiargliela. Era splendido. Perché non lo aveva notato prima? Sul collo, sulla mascella e sul sopracciglio sinistro aveva dei tagli minuscoli e delle cicatrici a malapena visibili che in qualche modo aumentavano la sua bellezza. Aveva un naso pronunciato e labbra piene, e i capelli di un nero intenso erano portati ordinatamente dietro le orecchie, anche se su un lato gli ricadevano sulla fronte. Lo sentiva solido. Come se potesse superare qualunque tempesta e non spezzarsi mai. Si riscossero dalla strana trance in cui sembravano essere caduti, distogliendo lo sguardo l’uno dall’altro “Andiamo, devi mangiare. Flora e Lasa hanno preparato un pasto favoloso.” Indicò verso la cucina, la mano che veniva a posarsi sulla parte bassa della schiena di Riley mentre lo accompagnava. Il suo tocco aveva uno strano effetto calmante su di lui, il che era bizzarro visto che fino a poco tempo prima Khalon aveva avuto un talento per dargli sui nervi
Charlie Cochet (The Soldati Prince (Soldati Hearts, #1))
«Sei fortunato ad avere Jude, anche se è lontano,» si trovò a dire, quasi sorpreso dal modo in cui quel pensiero, fino a poco prima impensabile, scivolava sulla lingua con la naturalezza delle verità meno dure.Raven sorrise, lanciando uno sguardo al vetro della finestra, buio e liscio come uno specchio: la luce sembrava tagliare fuori il cielo dove, in qualche punto imprecisato dello spazio aereo, il suo ragazzo sorvolava il continente, diretto verso la vita che stava costruendo altrove. «Lo so,» ammise. «Ma la fortuna può avere tante forme diverse. A volte è amore, altre amicizia,» aggiunse, spostando lo sguardo su di lui e rendendolo più complice. «Altre ancora entrambe le cose.»«Come capisci la differenza?» chiese Carlos, a bassa voce.Sulla loro testa, nel silenzio, la luce sfrigolò appena.«Penso che vari da persona a persona,» rispose Raven, con una scrollata di spalle. «E forse anche nel tempo. L’importante, per me, è sempre stato non lasciarmi frenare da questioni esterne. Come il nome che scegli di dare alle cose. O quello che pensi potrebbe pensare la gente.»«Sì,» disse lui lentamente, mentre l’eco di quelle parole si spegneva e lasciava altro spazio al silenzio. «Penso che tu abbia ragione»
Micol Mian (In luce fredda (Rosa dei venti Vol. 1))
Fu un bacio lungo, lento, quasi pigro; un bacio che non dettava lui, in alcun modo, e che neanche Carlos sembrava aver preventivato del tutto, perché quando si scostò per prendere fiato aveva il respiro affannato e le mani malferme, gli occhi serrati come per inseguire qualcosa che già andava sfumando. Li socchiuse e le sue ciglia vibrarono; Viv lo guardò attentamente, in modo quasi clinico, ma non trovò traccia di disagio, né pentimento né dubbio. Solo il rossore soffuso di un momento di comunione intensa, solo la bocca carnosa e bagnata da un bacio che ne chiedeva un altro, e un altro ancora.«Tutto okay?» gli chiese. Aveva la voce roca.Lui annuì una volta, poi sorrise.Non gli chiese di scendere, non sarebbe stato il momento. Ma rimase in quell’auto ancora a lungo – nella penombra morbida, densa e calda – e quando infine uscì nella sera, più fredda, sentendosi i suoi occhi addosso, gli sembrò di portarsi dietro qualcosa, invece di abbandonarlo. Per la prima volta da quando ricordava, nel rientrare in casa si sentì meno vuoto.
Micol Mian (In luce fredda (Rosa dei venti Vol. 1))
«So che cosa provi, e so perché credi di essere qui, cosa speravi di ottenere. In un’altra fase della mia vita avrei anche potuto darti quello che cerchi, forse. Forse starei meglio se lo facessi. Una scopata fine a se stessa con un uomo più giovane e attraente può essere il modo perfetto per riequilibrare i rapporti di una relazione disfunzionale come quella che lega me e David: lo so per esperienza,» aggiunse; quel termine scurrile, l’incurvarsi improvviso della voce su tonalità più aspre, gli strappò un sussulto. Di colpo, come era già accaduto altre volte in passato, il filtro che senza neanche accorgersene sovrapponeva a quella donna – composto di tutti i suoi ruoli, quello della donna del capo, della moglie tradita, della madre modello e dell’amante vendicativa – scomparve e Carlos la vide per quello che era: una persona un po’ ammaccata, sofferente, abituata a patti continui con l’orgoglio, che conosceva bene il proprio abisso e aveva ormai imparato a bilanciarsi sull’orlo del dirupo. «Se sai che potrebbe essere utile, perché non lo fai?» chiese lentamente, e non sapeva neanche lui che cosa stesse chiedendo davvero: di usarlo per la sua vendetta – offrendogli intanto il modo di prendersi anche la propria – o solo di spiegargli il motivo di quel rifiuto.La vide sorridere, un sorriso triste, del tutto consapevole.«Perché tu non sei il tipo di uomo a cui piace fare sesso con rabbia,» disse, quasi con tenerezza. «E non voglio che domattina ti svegli con una ragione in più per odiare te stesso. O il ragazzo che ti ha portato a questo.»Fu come se avesse allungato una mano a sciogliere il nodo che gli impediva di respirare da ore; Carlos espirò di getto, si riempì di nuovo i polmoni di ossigeno. Sentì gli occhi bagnarsi, come un contrappeso istintivo, e alzò le mani a premersi le nocche contro le palpebre il più forte possibile. Di fronte a lui, Megan non disse niente.«Non sono neanche sicuro di odiarlo,» ammise Carlos infine, in un soffio. «È tutto un tale casino. Riesco soltanto a immaginarli insieme, e non capisco se sono più incazzato o preoccupato o ferito. Vorrei soltanto strapparglielo di mano. Cancellare tutto.»
Micol Mian (In luce fredda (Rosa dei venti Vol. 1))
Le anime hanno un loro particolar modo d'intendersi, d'entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso. E ogni qualvolta due che comunicano fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d'ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l'angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano.
Luigi Pirandello (Il fu Mattia Pascal (Italian Edition))
La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio strato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace. L'amore ha la virtù di denudare non i due amanti, l'uno di fronte all'altro, ma ciascuno dei due davanti a sé. Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige, è amato. Cioè, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria. Soltanto seguendo l'istinto, il modo d'essere iniziale, spontaneo, si può sentirsi giustificati e in pace con se stessi e la propria misura. Ma chi ha nell'istinto il dividersi in due, l'attaccar lite con se stesso? Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola. Vivere tra la gente è sentirsi foglia sbattuta. Viene il bisogno d'isolarsi, di sfuggire al determinismo di tutte quelle palle da biliardo. da "Il mestiere di vivere
Cesare Pavese
«Hai mai pensato che, forse, il punto non è che dovresti risolvere tu qualcosa? Non è una responsabilità che ti spetta.»«E cosa dovrei fare, allora?»Sembrava una domanda sincera. Come se davvero stesse chiedendo il suo consiglio – come se finalmente si stesse lasciando guardare, dopo tutto quel tempo – e a Carlos neanche interessava più che si fossero appena rivisti dopo settimane di silenzio, e una frattura che non si era ancora risanata: l’unica cosa importante, in quel momento, era trovare le parole per comunicare a quel ragazzo una verità confusa che neanche lui comprendeva del tutto, e a cui nonostante questo credeva ciecamente. In modo del tutto intuitivo.«A volte ho l’impressione che tendiamo a metterci troppo al centro del mondo,» cominciò lentamente, concentrandosi per tradurre in parole quell’idea astratta che gli era cresciuta dentro in quei mesi, modellata dalle persone che aveva conosciuto, dalle storie che aveva visto e sfiorato. «Siamo convinti che l’importante sia quello che facciamo, il modo in cui possiamo agire sugli altri. Nel bene e nel male. Influenzandoli. Ma forse il punto non è quello che facciamo, non davvero. Soltanto quello che siamo. E quanto lasciamo che gli altri lo vedano. Io non ho mai voluto che tu fossi diverso, Viv,» proseguì, il tono di colpo fervido, convinto. «Non ho mai voluto cambiarti. Avrei solo voluto che tu mi lasciassi vedere quello che sei, che fossi te stesso al mio fianco. Senza nasconderti. Senza bisogno di proteggerti. E forse questo vale anche per tuo fratello, forse vale per tutti.» Una pausa, dolorosa. Inevitabile. «Anche con te, a volte, ci sono stati momenti in cui avrei voluto abbracciarti ma non l’ho fatto, e sono rimasto a guardare mentre ti facevi consumare da qualche veleno segreto. Il giorno in cui abbiamo litigato… Non avrei dovuto forzarti, lo so, ma…» Si strinse nelle spalle. «Non sono bravo a bruciare in silenzio, io,» «E non dovresti esserlo,» ribatté Viv. «Né diventarlo. È questo che intendo, Carlos. Ti meriti qualcuno che non ti faccia sentire in quel modo.»«Potresti smettere di usare quella parola, almeno per questa sera?» L’irritazione si riaccese di colpo, come brace nella cenere. «Per te è importante solo questo, che cosa voglio io non conta?»«E cos’è che vuoi, Carlos?» ribatté l’altro, quasi con sfida.Lui lo guardò negli occhi. «Te,» disse, e non provò neanche imbarazzo. Era la verità, lo era dall’inizio; aveva impiegato troppo tempo ad ammetterla con se stesso, non aveva intenzione di continuare a nasconderla. Viv lo guardò, immobile, occhi sgranati e lucidi, labbra socchiuse. «E in questo momento?» domandò, con un filo di voce. «Più concretamente?»«Voglio abbracciarti,» rispose lui, azzardandosi infine a tendere la mano. La guancia di Viv era liscia, fredda; toccarlo fu un brivido. Lui girò la mano in modo che al posto delle nocche lo accarezzasse il palmo, e mosse lentamente il pollice sul suo zigomo. «Posso?»L’altro annuì, senza parlare; sembrò deglutire a fatica.Quando Carlos scivolò più vicino sul letto e gli passò un braccio intorno alla schiena, lo sentì rigido come doveva essere stato lui la prima volta che Viv l’aveva toccato, e al tempo stesso mille volte più fragile e inflessibile, più ferito. Per un istante ci fu solo l’eco del sangue, di nuovo fortissimo, nelle orecchie e nei polsi, alla giugulare. Poi, come in un miracolo improvviso, il corpo tesissimo che sentiva premere contro il fianco si sciolse in una postura più morbida e Viv nascose il volto contro la sua spalla; se lo ritrovò in braccio come era accaduto altre volte, in passato, su quello stesso letto, ma a differenza di allora la tensione sessuale rimase in sottofondo, una vibrazione distante
Micol Mian (In luce fredda (Rosa dei venti Vol. 1))
Se avesse fatto coming out, non si sarebbe mai più riconciliato con loro. All’improvviso, restò pietrificato quando tutto divenne più chiaro. Ebbe la sensazione che le nuvole che per tanto tempo avevano coperto il suo sole si fossero diradate, permettendo alla luce di brillare. I suoi genitori lo avevano già ripudiato, ed era sopravvissuto. Quando aveva detto di non voler diventare un rabbino, seguendo il destino impostogli dalla sua famiglia, né di seguire la fede chassidica, suo padre lo aveva cacciato da casa. Aveva il permesso di tornare solamente in caso si fosse pentito e avesse ripreso a professare la religione. Non aveva alcuna intenzione di farlo, dato che sapeva che non sarebbe mai riuscito a essere libero con tutte le regole di quella fede. Non c’era mai stato un modo per tornare a quella vita. Niente di quello che avrebbe fatto, a parte seguire alla lettera le regole imposte dalla sua famiglia, sarebbe mai stato sufficiente. Si era preso in giro perché essere cacciati era stato un duro colpo. Niente poteva peggiorare il modo in cui era stato rifiutato. Ci era già passato… ed era sopravvissuto. La scelta era semplice, quasi ridicola
Nora Phoenix (The Time of My Life)
«Cosa significa?» chiede sua madre, mentre pesca una nuova carta. «Uccidetemi ora,» mormora Thane con la faccia tra le mani, mentre sua madre mi mostra la carta in questione. Soffoco in un’altra risata mentre leggo la frase ‘una bocca alla guida’ sulla sua carta. «Significa… ehm… beh…» «È quando fai un pompino a una persona che sta guidando,» sbotta in risposta Bob. «Oh, non sapevo si dicesse così.» Poi Bob sghignazza in modo lussurioso e io quasi muoio dalle risate. «Okay, qui abbiamo finito.» Thane porta via tutte le carte dai suoi genitori mentre io cerco di fare del mio meglio per respirare tra una risata e l’altra
K.M. Neuhold (Rescue Me (Heathens Ink #1))
il Natale per me è magico, forse pure miracoloso. Ci si ritrova ogni sera per giocare, ma le carte sono una scusa. La verità è che a noi, intendo io e mia moglie, ci piace stare vicini vicini, ammassati nella stanza da pranzo, che è sempre la stessa dai tempi di mio nonno. A mano a mano che escono i numeri ognuno ha una cosa da contare, un ricordo speciale, un modo di dire. Cose di famiglia, va. Ci sembra quasi di essere di nuovo al completo e il cuore arrisagghia di felicità. A questo serve la tombola che si crede?
Giuseppina Torregrossa (Il sanguinaccio dell'Immacolata (Marò Pajno, #3))
Ci rendiamo conto di quanto noi abbiamo privilegiato l'amore ideale a scapito di quello reale. [...] l'umile miseria umana, infatti, intrisa di quella vile humus cui l'uomo è etimologicamente connesso, si vivifica nel limite che, a ogni piè sospinto, non le permette di liberarsi e librarsi, e le fa intravedere soltanto quanto non è limitato, quanto è assoluto e, in una parola, perfetto. Eppure, facciamo parte d'una società che eleva a sistema l'apparenza più che il reale, l'avere più che l'essere. è [...] Esi ha quasi l'impressione di venire da un altro mondo per vivere un presente senza radici [...]. Ma l'unico modo per guardare avanti è volgersi indietro. [...] Crediamo, a dir il vero, che non tutto sia perso, che non tutto sia irreparabile. La società occidentale postmoderna, nonostante le violenze raccapriccianti, le iniquità imperdonabili, le corruzioni ignobili e le tante altre nefandezze e miserie che la insozzano, è tutt'altro che priva o avara di occasioni per coltivare con gioia e intelligenza la propria umanità e per costruire, così, un'esistenza più significativa, più piena, più felice.
Federico Cinti (Il vero amore: da Platone ad Agostino)
- Sai cos'è la base di tutto? Della vita, dell'amore, della continuazione della specie, del sesso e persino della morte? La paura. Quando nasciamo la prima sensazione che proviamo è la paura. Forse, persino quando siamo ancora nella pancia delle nostre madri, proviamo paura. Quando amiamo una persona, lo facciamo solo perché abbiamo paura di rimanere soli. È normale avere paura. L'uomo è un animale. Pensa ai nostri progenitori. Immaginali in una foresta, immaginali senza attrezzi, senza negozi, ospedali, scuole, caserme, senza la società. Se non avessero avuto almeno la paura sarebbero morti tutti subito e invece i più vili sopravvivevano. Chi era troppo temerario periva presto, sbranato da bestie ferocissime, ucciso dai propri simili, fatto fuori da catastrofi immani. La paura è la molla di tutto, pure del sesso. Cos'è il sesso se non la paura di non riuscire a garantire un futuro alla specie? Non c'è niente di piacevole, dolce, passionale o di bello nel sesso. È solo paura. La paura è un fattore ancestrale. È la molla della vita. Solo chi la domina detiene il potere. È per questo che dobbiamo mettere in piedi una fabbrica della paura, dobbiamo edificare una società fondata sulla paura per il bene del vivere sociale, contro l'anarchia e i disvalori oggi imperanti. È un compito importante il nostro, delicatissimo, direi fondamentale per le sorti dell'umanità. [...]Ma come si fa a costruire una società fondata sulla paura?[...] Questo è l'aspetto più semplice invece, quasi una burla da ragazzini, un meccanismo infantile. La paura deriva dal senso di spiazzamento. Se tu sei abituato in un certo modo, possiedi una sicurezza acquisita dalle abitudini. Basta spezzare quest'equilibrio e i modi per farlo sono tanti. Generando la paura nella gente, immetti adrenalina nei loro corpi, quello che prima era ordinario, quello che era routine non è più sotto controllo e così impedisci alle teste di pensare, le persone normali impazziscono. A quel punto interveniamo noi che la paura la sappiamo gestire, oltre che creare. Interveniamo noi e facciamo ordine nella società, rimettiamo tutto al proprio posto. Pag: 137-138
Davide Pappalardo (Milano Pastis)
Perché non mi ascolti quando parlo?è un manuale per le relazioni affettive degli anni Novanta. Rivela come uomini e donne siano diversi in ogni aspetto della vita. Non solo i due sessi comunicano in modo diverso, ma pensano, sentono, percepiscono, reagiscono, amano, provano bisogno e giudicano secondo diverse modalità. Sembra quasi che provengano da pianeti diversi, perché parlano lingue diverse e diverse sono le loro necessità. Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere
John Gray (Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere: Istruzioni per l'uso)
Tu conosci le streghe, Mai?" "Le streghe? Intendi quelle che si vestono di nero, volano sulle scope e usano la magia?" "Sì. Be'. anche se suppongo che in realtà quasi nessuna volasse su una scopa." "Eh? Le streghe sono esistite davvero? Non sono solo un'invenzione della televisione, dei manga e delle fiabe?" "Be', forse erano un po' diverse dalle streghe che pensi tu, ma sono esistite davvero!" [...] "In che modo erano diverse? Eh, nonna?" "Vediamo... Quando non ti senti bene, tu cosa fai?" "Vado in ospedale!" "E se vuoi sapere che tempo farà domani?" "Ascolto le previsioni del tempo". "Bene. Però, tanto tempo fa, quando non c'erano gli ospedali, né il servizio meteorologico, né la televisione, né la radio, né i giornali, prima ancora del cristianesimo, come pensi che facessero?" "Il cristianesimo? Quindi dici prima della nascita di Cristo?" "Sì. Anche a quei tempi c'erano tante persone. Anche se non tante quante oggi, naturalmente. Allora la gente viveva affidandosi alla saggezza e alle conoscenze tramandate dalle generazioni precedenti. Per esempio le nozioni riguardo le piante medicinali o i trucchi per convivere con una natura ostile. La capacità di evitare i problemi prevedibili o di superarli. Gli antichi erano molto più esperti degli uomini moderni. E tra loro c'era chi possedeva queste conoscenze in misura superiore agli altri. La gente andava da queste persone come un paziente va a chiedere aiuto a un medico, come i fedeli si raccolgono intorno a un religioso, come gli studenti vanno a lezione da un maestro. In breve tempo, ciò che queste persone speciali possedevano cominciò a venire naturalmente trasmesso da madre in figlia, da figlia a nipote. Non solo la saggezza e le conoscenze, ma anche alcuni poteri particolari".
Kaho Nashiki (西の魔女が死んだ [Nishi no majo ga shinda])
Ogni giorno, leggendo, trovo delle parole nuove. Qualcosa sottolineare, poi trasferire sul taccuino. Mi fa pensare al giardiniere che strappa le erbacce. Così come il giardiniere, so che il mio lavoro in fin dei conti è una follia. Qualcosa di disperato. Quasi, direi, una fatica di Sisifo. Non è possibile, per il giardiniere, controllare alla perfezione la natura. Allo stesso modo non mi è possibile conoscere, per quanto voglia, ogni parola italiana. Ma tra me e il giardiniere c’è una differenza sostanziale. Le erbacce, per il giardiniere, non sono qualcosa di desiderato. Sono da sradicare, da buttar via. Io invece raccolgo le parole. Voglio tenerle in mano, voglio possederle.
Jhumpa Lahiri (In Other Words)
Vorrei che tu potessi ricordare come ci si sente quando si è donna, e come ci si sente quando non si è né uomo né donna. Solo "essere", prima di tutto, prima delle definizioni, dei pronomi personali, delle parole e dei generi. Forse, in questo modo, potresti anche arrivare, quasi per caso, alla possibilità primordiale di essere me,
David Grossman
[...] non ho quasi mai accettato il nome delle cose e credo che sia evidente nei miei libri, non vedo perché dobbiamo tollerare invariabilmente ciò che ci arriva da fuori, e così alle persone che ho amato e amo ho messo di volta in volta nomi che nascevano a loro modo da un incontro, dal contatto di combinazioni segrete, e allora le donne sono diventate fiori, sono state uccelli, sono state animaletti del bosco, e ci sono stati amici con nomi che addirittura cambiavano dopo aver compiuto un certo ciclo, l'orso poteva diventare scimmia, come qualcuno dagli occhi chiari è stato una nube e poi una gazzella e una notte è diventato una mandragora [...]
Julio Cortázar (Correzione di bozze in Alta Provenza (littleSUR) (Italian Edition))
Ma io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un’opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente dell’immortalità, non basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare. Perciocché l’esperienza ti mostrerà che a proporzione che tu verrai conoscendo più intrinsecamente quelle virtù nelle quali consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna differenza sarà dal conoscerle, all’imparare e possedere il detto modo; anzi saranno l’una e l’altra una cosa sola. Di maniera che l’uomo non giunge a poter discernere e gustare compiutamente l’eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché quell’eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell’uso e dell’esercizio proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo, niuno per verità intende, che e quale sia propriamente il perfetto scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi.
Giacomo Leopardi (Operette Morali: Essays and Dialogues (Biblioteca Italiana) (Volume 3))
Avete notato che i più raffinati spargitori di sangue furono quasi sempre persone civilissime, rispetto alle quali tutti i vari Attila e Sten'ka Razin non valevano quanto le suole delle loro scarpe, e se non saltano agli occhi con la vivacità di Attila e di Sten'ka Razin, è appunto perchè s'incontrano troppo spesso, sono troppo comuni, non fanno più colpo? Per lo meno la civiltà ha reso l'uomo, se non più sanguinario, certamente sanguinario in modo peggiore, più infame di prima. Prima vedeva nello spargimento di sangue un atto di giustizia e con tranquilla coscienza sterminava chi occorreva; ora invece, sebbene consideriamo lo spargimento di sangue come un'infamia, tuttavia ci occupiamo di quest'infamia, e ancora più di prima. Che cosa è peggio? Giudicate voi.
Fyodor Dostoevsky (Notes from Underground)
Il primo paradosso del tempo è inerente alla consapevolezza che ognuno ha di vivere in un tempo che precedeva la sua nascita e che continuerà dopo la sua morte. Questa consapevolezza individuale del finito e dell’infinito vale simultaneamente per il singolo e per la società. Infatti l’individuo che si trasforma, cresce e poi invecchia, prima di scomparire un giorno o l’altro, assiste in quel mentre alla nascita e alla crescita degli uni e all’invecchiamento e alla morte degli altri. Invecchia in un mondo che cambia, se non altro perché gli individui che ne fanno parte invecchiano anche loro e vedono generazioni più giovani prendere progressivamente il loro posto. Ci sono spiegazioni di tipo intellettuale per questo primo paradosso: sono tutte le teorie che, in un modo o nell’altro, inscenano il ritorno del medesimo. Nella maggioranza delle società studiate dall’etnologia tradizionale esistono rappresentazioni dell’eredità molto elaborate che tendono a ritenere la morte degli individui non una fine in sé quanto l’occasione per ridistribuire e riciclare gli elementi che li compongono. Le teorie della metempsicosi sono solo un tipo particolare di tali rappresentazioni. In Africa, per esempio, l’idea del ritorno degli elementi liberati dalla morte non è associata a quella del ritorno degli individui in quanto tali, anche se, nelle grandi chefferies o nei regni, la logica dinastica spinge in quella direzione. Altre istituzioni, come le classi di età, o taluni fenomeni religiosi ritualizzati, come la possessione, rientrano in quella visione immanente del mondo che tende a relativizzare l’opposizione tra vita e morte in virtù di un’intuizione non lontana dal principio scientifico secondo il quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Il secondo paradosso del tempo è quasi l’inverso del primo e riguarda la difficoltà per uomini mortali, e quindi tributari del tempo e delle idee di inizio e fine, di pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine. Le cosmogonie e le apocalissi, in varie modalità, sono una soluzione immaginaria per rispondere a questa difficoltà. Il terzo paradosso del tempo rimanda al suo contenuto o, se vogliamo, alla storia. È il paradosso dell’evento, del fatto sempre atteso e sempre temuto. Per un verso sono gli eventi che rendono sensibile il passaggio del tempo e che servono anche a datarlo, a ordinarlo secondo una prospettiva diversa dal semplice ripresentarsi delle stagioni. Ma per un altro verso l’evento comporta il rischio di una rottura, di una lacerazione irreversibile con il passato, di un’intrusione irrimediabile del nuovo nelle sue forme più pericolose. Per un lungo periodo della storia umana le catastrofi ecologiche, meteorologiche, epidemiologiche, politiche o militari avevano il potere di minacciare l’esistenza stessa del gruppo, e lo sviluppo delle società non ha fatto svanire la consapevolezza di rischi del genere: li ha solo collocati su una scala diversa. Il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è sempre stato al centro delle attenzioni dei gruppi umani. Lo è ancora oggi; cambiano solo le parole e le soluzioni. È anzi possibile che il paradosso dell’evento sia al suo culmine: mentre la storia accelera sotto la spinta di eventi di ogni genere, noi pretendiamo di negarne l’esistenza, come nelle epoche più arcaiche, per esempio celebrandone la fine.
Marc Augé (Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo)
Che luce c’era nella stanza! In nessun momento del giorno poteva soffrire le persiane arrotolate fino in cima, ma di mattina erano intollerabili. Si rivoltò verso il muro e pigramente, con un dito, segui il contorno di un papavero sulla tappezzeria, foglia, gambo e bocciolino turgido. Nel silenzio, sotto la pressione delicata del suo dito, il papavero sembrò animarsi di vita. Le pareva di sentirne i serici petali appiccicosi, il gambo coperto di peluria come la buccia dell’uvaspina, la foglia ruvida e il boccio pregno. Non era la prima volta che le cose prendevano vita. E non solo le cose grandi, essenziali, come i mobili in genere, ma le tende, e i disegni delle stoffe, e le frange dei trapuntini, dei guanciali. Quante volte non le era accaduto di vedere la frangia a nappine della sua imbottita trasformarsi in una buffa processione danzante con un seguito di preti! ...Perché alcune nappine non danzavano affatto, ma incedevano solenni, curve in avanti, come in preghiera o in atto di cantare le lodi di Dio… Quante volte le boccette dei medicinali si erano trasformate in una fila di omini con un cilindro marrone in testa: e la brocca sul lavabo aveva un modo di stare accovacciata nel catino che faceva pensare a un grosso uccello in un nido rotondo. [...] “C’è un gran silenzio ora”, pensò. E, tenendo gli occhi aperti, sbarrati, udì il silenzio tessere la sua morbida tela di ragno senza fine. Com’era leggero il suo respiro: quasi non respirava neppure.
Katherine Mansfield (The Aloe)
Per un certo senso sembra quasi un paradosso che la Regina Dell’Oltretomba, sia una Dea fin troppo benevola e compassionevole, al contrario di Inanna, Dea della Vita, ma con il potere così devastante da porle fine, a volte in modo anche crudele.
Cleo Rozenfeld (La Stella (Saga del Sigillo della Luna, #1))
Kitanai, kiken, kitsui” è un modo di dire Giapponese, traducibile in “sporchi, pericolosi e umilianti” e si riferisce a quei lavori non qualificati e sottopagati che pochi sono disposti a fare. Fino a poco tempo fa, l’utilizzo di lavoratori non biologici era riservato quasi esclusivamente a queste 3K; tuttavia, negli ultimi anni, si è consolidata una nuova tendenza che vede il fenomeno dei robot, intelligenza artificiale e service automation sempre più in concorrenza con i lavoratori umani per impieghi più specializzati e meglio pagati.
Simone Puorto (Hotel Distribution 2050. (Pre)visioni sul futuro di hotel marketing e distribuzione alberghiera)
Nell'aria c'è un forte odore di disinfettante, un'imitazione artificiale di un prato in fiore. Nel futuro, suppongo, a un certo punto non rimarrà quasi più nessuno a conoscere il profumo di un autentico prato in fiore. Forse di prati simili non ne esisteranno più, i fiori dovranno essere prodotti in laboratorio e chiaramente li architetteranno in modo che odorino di disinfettante, credendo che sia quello l'odore giusto…
Catriona Ward (The Last House on Needless Street)
Prendendomi il viso tra le mani, chiudo gli occhi, nel tentativo di riguadagnare il controllo. Credevo di essere bravo in questo, ma Jazlyn mi mette a dura prova e non lo fa neanche in modo consapevole. Si merita molto di più di quello che sta passando nella mia testa. Deglutisco, come se in qualche modo potessi mandare giù le emozioni che sembrano travolgere il mio corpo. Per fortuna, pare che funzioni. Quando sono di nuovo calmo, mi allungo per prendere la coperta e coprirla. È meglio per entrambi. Jazlyn la stringe quasi subito, per poi girarsi dall’altra parte e abbracciarla, il tutto senza svegliarsi. Mi fa sorridere. Lei è un dannato paradosso vivente. Almeno per me. Se continuiamo così, mi farà impazzire in fretta. Ne sono certo. Anche lo stesso pigiama che indossa è in netto contrasto con i suoi soliti abiti larghi e senza forma. È un pezzo di stoffa di seta viola e pizzo nero che non dovrebbe essere legale. L’avevo già vista con dei vestiti che rivelavano di più del suo corpo, come in palestra o l’altro giorno in centrale. Niente mi aveva preparato a oggi. E adesso come faccio a togliermela dalla testa quando è appena entrata un po’ più sotto la mia pelle?
Cecilia Claudi (Attraverso le fessure Vol. 1 (Attraverso le fessure #1))
Comunque sia lei deve avermi preparato una tazza di tè, prima di uscire per piazzare un avviso nei pressi dello stagno, che, tra parentesi, tutto è fuorché profondo. Dipendesse da me, non metterei un cartello vicino a uno stagno con su scritto STAGNO, ci scriverei qualcos'altro, tipo SBOBBA PER MAIALI, o lascerei perdere proprio. So qual è lo scopo, so che si vuole evitare che i bambini si avvicinino allo stagno correndo troppo e ci cadano dentro, eppure non sono granché d'accordo. Non è che io voglia vedere bambini ruzzolare nello stagno, malgrado davvero non capisca che male potrebbe fargli; è che non posso fare a meno di soppesare il problema dalla prospettiva di un bambino. E in tutta franchezza mi sentirei disgustata al punto di ordire una vendetta immediata se in un pomeriggio di settembre inoltrato venissi condotta in un luogo di presunta magia e mi fiondassi sullo stagno, quasi certamente sola, per scoprire la parola stagno scribacchiata in modo illeggibile su un misero e umidiccio pezzo di compensato lì accanto. Oh, mi infurierei. Quel genere di idiota invadenza si ripete con tale fastidiosa regolarità nel corso dell'infanzia ed è sempre fonte di estrema irritazione. Vedi si comincia con l'indagare, con lo sviluppare la capacità di notare davvero le cose e, a forza di tempo e con la pratica necessaria, si entra in sintonia con il logos radicato nella terra e si arriva a conoscere l'arricchente gioia di muoversi in accordo diretto e profondo con le cose. Eppure questo processo vitale viene bruscamente intralciato dall'immancabile e stupido dispiego di nomi letterali e avvisi insensati, tanto che l'intero terreno ne risulta oscurato e inaccessibile finché tutto non diventa temibile. Manco la terra fosse un'immensa ed elaborata trappola mortale.
Claire-Louise Bennett (Pond)
A questo punto Fugui mi guardò con una risatina: quello che quarant'anni prima era stato un libertino sedeva a petto nudo sull'erba fresca, il sole che squarciava a fiotti di luce le foglie degli alberi illuminava i suoi occhi stretti a fessura. Le sue gambe erano incrostate di fango, sulla sua testa completamente rasata sbucavano radi e sparsi alcuni capelli bianchi; sul petto la pelle s'increspava in tante grinze, lungo le quali scivolava colando il sudore. In quel momento il vecchio bufalo era accucciato nell'acqua giallastra dello stagno, affioravano soltanto la testa e la lunga colonna vertebrale: l'acqua dello stagno sciabordava su quella schiena bruna come le onde che s'infrangono sulla riva. Incontrai questo vecchio agli inizi della mia vita girovaga, ero un giovane spensierato allora, ogni faccia nuova mi riempiva di entusiasmo, m'attirava profondamente tutto ciò che m'era sconosciuto. Fu proprio in un momento simile che incontrai Fugui: sapeva raccontarsi in modo colorito e vivace, nessuno mi ha mai aperto il suo cuore come lui, era disposto a rivelare qualsiasi cosa volessi conoscere. L'incontro con Fugui mi riempì di liete aspettative per la mia vita alla ricerca di ballate, pensavo che quella terra fertile e lussureggiante fosse popolata da un'infinità di persone come lui. In seguito ho effettivamente incontrato molti vecchi simili a Fugui, portavano come lui delle braghe con il cavallo che ricadeva a penzoloni quasi fino alle ginocchia. Le rughe sul loro viso erano coperte di terra e sole e quando mi sorridevano potevo vedere che nel vuoto della loro bocca non restava che qualche dente. Spesso versavano lacrime torbide, ma non perché fossero tristi: piangevano anche quand'erano allegri e persino nei momenti di assoluta calma e senza alcun motivo, poi alzavano le loro dita scabre come strade di campagna a sfregarsi via le lacrime come ci si pulisce di dosso qualche filo di paglia.
Yu Hua (To Live)
In un mondo saturo di informazioni, la scelta di essere vaghi è come una tre- gua. Una corsa senza compravendita, senza sponsor, senza cellulare. Anche al di là del malinteso della distanza, Barkley non ha quasi niente a che fare con altre 100 miglia come Hardrock, Western States, UTMB o la Diagonale des Fous. La Barkley è un oltre-trail, un'isoletta inclassificabile riservata a quaranta corridori. Non ci sono vincitori, solo dei rari non-vinti. Ma soprattutto, a Frozen Head non si trova niente che non si abbia già, nessun trofeo da portarsi a casa. «La maggior parte delle corse sono organizzate in modo da essere sicuri di poterle finire. La Barkley non consiste soltanto nell'esplorare i limiti, ma nel confrontare i partecipanti. Mostra la fine e il limite di ognuno».
Alexis Berg (The Finishers: The Barkley Marathons)
-Senza alcuno scopo immediato e concreto Questa ultima parte della mia "personalissima" definizione per me è la più importante: studiare deve essere un gesto a sé stante, sganciato da ogni fine o utilità immediata. Non si studia per, si studia e basta, per il piacere che si prova al momento o per il piacere che ce ne verrà poi, quando avremo studiato, cioè incamerato alcune nozioni che ci serviranno ad accedere a mondi altrimenti impenetrabili. Questa gratuità dello studio, questo suo valore non utilitaristico, è quello che mi sembra oggi più a rischio. La scuola e l'università stanno andando esattamente nella direzione opposta: promuovono uno studio utile, concreto, immediatamente spendibile per fini pratici, economici, sociali. Chiediamo ai giovani di scegliere Facoltà che li immettano direttamente nel mondo del lavoro. E stiamo cercando di cambiare la scuola in modo tale che quasi esclusivamente prepari al lavoro. Non è male in sé studiare per imparare un mestiere, ci mancherebbe! Ma il rischio è di perdere tutto ciò che non ci appare immediatamente utile e usufruibile, e che però arricchisce la nostra sostanza umana: le materie umanistiche prima di tutto, cioè appunto lo studio di tutto ciò che riguarda l'uomo in quanto tale e il senso del suo stare al mondo. Tutta roba che non porta alcunché di concretamente utile in nessun campo lavorativo: studiando Dante certamente non impariamo a gestire un'azienda, organizzare un convegno, curare un malato o costruire un ponte. Quindi, diciamo oggi, cosa lo studiamo a fare? Infatti stiamo riducendo le ore di latino, e in generale delle materie più astratte e inutili, come algebra, letteratura, filosofia. Secondo le direttive europee, quella è la scuola vecchia; meglio allenare i ragazzi al problem solving, certificare le loro competenze ( cioè le capacità di applicare le conoscenze, non il possesso fine a sé stesso e gratuito delle conoscenze), ed esercitarli al lavoro di gruppo. EÈ chiaro che il modello è l'impresa, l'industria, il commercio. Tutto deve rendere, oggi. E deve darci una resa visibile e immediata. Vogliamo essere visibili, apparenti: comparse. Vogliamo comparire il maggior numero di volte possibile. Se no, saremo dimenticati. E noi oggi proprio di questo abbiamo orrore: di essere dimenticati, non percepiti, accantonati. Se vogliamo essere alla ribalta, studiare non ha senso. Non ci rende visibili. Non ci porta su un palco. Non ci fa esistere. Ci vogliono troppi anni a fondo perduto, anni "nascosti", inutili, che non "producono" per la nostra vanità nulla di interessante. Noi siamo vanitosi e narcisi. Studiare forma soltanto la nostra sostanza umana, affina le capacità di pensiero, permette di accedere a piaceri speculativi che appartengono alle più alte sfere dello spirito. Troppo poco. Non ci lusinga. Per noi oggi una persona è il lavoro che fa e i fari che riesce ad avere addosso. Poi, solo poi, eventualmente, è anche una persona.
Paola Mastrocola (La passione ribelle)
La Breve storia dell’anima che proponiamo non è una summa sistematica e completa del tema, non è neppure un saggio accademico destinato agli addetti ai lavori, non è un testo di approfondimento teorico, desideroso di inoltrarsi su vie inesplorate. Il metodo adottato è quello suggerito da Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane. È la tecnica dello scultore che non aggiunge ma toglie, scalpellando senza sosta l’enorme blocco di marmo per far emergere un volto o un torso. Abbiamo pensato di adottare come schema simbolico per questa ricerca nell’orizzonte dell’anima quello della navigazione. Varie sono le tappe del viaggio. Prima però di imbarcarsi, è necessario un itinerario di avvicinamento al fiume transitando nelle culture primitive, nelle antiche e gloriose civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India e dell’Arabia, visitando anche luoghi reconditi, quasi simili a grotte oscure, come nel caso della metempsicosi, dello spiritismo, della metapsichica. Il grande fiume dell’anima che dobbiamo navigare, circondato da queste terre, rivela due sorgenti specifiche che lo hanno alimentato in modo copioso. Da un lato, c’è la «Sorgente sacra» delle Scritture bibliche con il loro originale e variegato messaggio che ha alcuni apici nel libro della Genesi e nelle parole di Cristo e di san Paolo. D’altro lato, ecco l’«Altra sorgente», quella della cultura greca, ove appaiono i miti affascinanti di Psiche e di Orfeo, ma anche si stagliano pensatori eccelsi come Platone, Aristotele e Plotino. Dalle sorgenti la navigazione s’inoltra poi nel corso tortuoso del fiume: si devono percorrere secoli e secoli di storia. Tre sono i profili dell’anima che entrano in scena. C’è anzitutto quello disegnato dalla teologia cristiana nel suo incessante interrogarsi, nelle risposte del Magistero ecclesiale ufficiale, nell’elaborazione intensa dei suoi pensatori e anche nel suo sforzo ardito di affacciarsi sull’oltrevita dell’anima, al di là del confine della morte. C’è, poi, la complessa riflessione della filosofia occidentale, a partire da Cartesio, dal cui dualismo si diramano sia i grandi «spiritualisti» come Spinoza e Hegel, sia l’aspra reazione dei «materialisti», negatori convinti dell'anima. È il capitolo dell’«Anima filosofica» che si apre anche a teorie innovative, come quelle dell’evoluzionismo e della psicologia/psicoanalisi. Infine c’è il profilo dell’«Anima poetica»: è uno sguardo gettato sul mistero dello spirito dall’intuizione letteraria. Si va, allora, dalle scene create dal genio di Dante al terribile patto tra Faust e Mefistofele descritto da Goethe, dai dialoghi tra anima-corpo-natura immaginati da Leopardi, Rosenzweig o Péguy fino alle sorprendenti proposte di Pirandello e di tanti altri autori. Si giunge così a una tappa conclusiva: si penetra nell’odierno inquietante ma anche affascinante laboratorio delle neuroscienze per incontrare quell’«uomo neuronale» che alcuni vorrebbero spogliato dell’anima e ridotto a cervello. Quando si sarà conclusa la navigazione lungo il fiume della storia dell’anima, si avrà forse un’impressione antitetica rispetto alla voce dell’indigeno amazzone: l’anima è ben più veloce e vivace della civiltà moderna. È ciò che affermava nel V secolo uno scrittore spirituale, Giovanni Cassiano: «Stiamo sicuramente andando indietro quando ci accorgiamo di non essere andati avanti: l’anima non può rimanere ferma».
Gianfranco Ravasi