Quasi Modo Quotes

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Le anime hanno un loro particolar modo d'intendersi, d'entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e le loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quando veda l'impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d'ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l'angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano.
Luigi Pirandello (Il fu Mattia Pascal)
Lo so come ti senti. È come essere dietro un vetro, non puoi toccare niente di quello che vedi. Ho passato tre quarti della mia vita chiuso fuori, finché ho capito che l'unico modo è romperlo. E se hai paura di farti male, prova a immaginarti di essere già vecchio e quasi morto, pieno di rimpianti.
Andrea De Carlo (Due di due)
Le cose si rompono , a volte si aggiustano, e ci rendiamo conto che, per quanti danni possiamo subire, la vita ci ricompensa quasi sempre, spesso in modo meraviglioso.
Hanya Yanagihara (A Little Life)
Perché? si chiese Morgana. Forse perché il mondo era quale lo credevano gli uomini? Nelle ultime generazioni gli uomini avevano imparato a credere che esistessero un solo Dio, un solo mondo, un solo modo di descrivere la realtà, e che quanto era estraneo a quel mondo appartenesse ai diavoli, e che il suono delle campane tenesse lontano il male...E più era numerosa la gente che lo credeva, più Avalon diventava un sogno alla deriva in un altro mondo quasi inaccessibile.
Marion Zimmer Bradley (The Mists of Avalon (Avalon, #1))
La cosa più bella che può capitare a uno scrittore, a qualcuno che passa la sua vita a raccontare, è sentirsi raccontare. E quando scopri qualcuno che ti assomiglia veramente (ce ne sono) ti accorgi di quanto la persona su cui ti eri incastrata era sbagliata per te, e tu sbagliata per lui, e di quanto forse lei invece sia giusta, e quasi spero che ce la farà, che ce la faranno, perché è quello che conta, diventare un plurale – finché siamo io e te, come eravamo io e te, non cambia mai niente - e poi magari nessuno di noi si incontrerà mai, continueremo a essere soli in quel modo che soli non siamo, coi nostri fantasmi d’orgoglio e dolore, la nostra paura, un manipolo di sogni che a volte sono forti e hanno il potere di distorcere la trama del mondo e altre volte ci gravano addosso perché quella forza non la troviamo, vogliamo possiamo, ed è il mondo che distorce la trama di noi – io, te, lui, lei… così simili nel nostro essere – diversamente - alla deriva.
Sara Zelda Mazzini (Cronache dalla fine del mondo)
«Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel. ... «Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»
Carlos Ruiz Zafón
Ci sono talmente tanti modi di essere spregevoli che quasi viene il capogiro a pensarci. Ma il vero modo di essere spregevoli è provare disprezzo per il dolore altrui.
James Baldwin (Giovanni’s Room)
«Mettiti il casco. È tardi!» le ordinò senza guardarla in viso mentre le porgeva il copricapo. Asia non disse una parola. Il sole era già scomparso ed era consapevole che con l’oscurità il Male avrebbe potuto fare capolino da un momento all’altro. Il cimitero del Wawel distava pochi minuti dal suo appartamento, ma lei conosceva bene il Venator e sapeva perché si spostava comunque in moto. Le sacche laterali della sua cavalcatura erano piene zeppe di armi, una vera e propria santa barbara sempre pronta all’uso. Mentre si issava con accuratezza dietro di lui cercò di trattenere il respiro. L’idea di sfiorare di nuovo, dopo quasi due anni, il suo corpo la faceva sentire come una bambina il primo giorno di scuola: tensione a mille, ansia, batticuore e la sensazione che di lì a poco sarebbe morta di infarto. Ma quel momento magico fu bruscamente distrutto, e le acide parole inzuppate nel veleno che uscirono dalle labbra di Bor la scaraventarono con una forza dolorosa nella realtà di quel pomeriggio. «Aggrappati alle manigliette laterali, non a me. E reggiti forte, non mi va di dovermi fermare a raccogliere i tuoi pezzetti.» Asia si sentì morire ma mai, per nessuna ragione al mondo, gli avrebbe dato soddisfazione. «Certo, non temere, non ti accorgerai nemmeno di me», disse a denti stretti mentre la bocca le si seccava per la delusione di essere stata respinta così in malo modo.
Eilan Moon
Lo so, lo so, ma ascoltami. Hai letto L’idiota, vero? Sì. Beh, L’idiota è un libro molto inquietante per me. Mi ha fatto così effetto che dopo non ho quasi più letto romanzi, a parte roba tipo ‘Uomini che odiano le donne’. Perché… provavo a intromettermi, …be’, magari me lo dici dopo, a cosa pensavi, lasciami finire di dirti perché l’ho trovato inquietante. Perché tutto quello che Myškin fa è buono… altruista… tratta tutti con compassione e comprensione e a cosa porta tutta quella bontà? Omicidi! Disastri! Una volta mi preoccupavo un sacco di questa cosa. Me ne stavo sveglio a letto di notte e mi preoccupavo! Perché – perché? Com'era possibile? Ho letto quel libro tre volte, pensando di non averlo capito. Myškin era gentile, amava la gente, era tenero, perdonava sempre, non faceva mai niente di sbagliato – ma si fidava di tutte le persone sbagliate, prendeva solo decisioni sbagliate, faceva soffrire tutti quelli che gli stavano intorno. Quel libro contiene un messaggio oscuro. “A che pro essere buoni?” Ma – questo è ciò che ho capito ieri notte, mentre guidavo. E se… se fosse più complicato di così? Se fosse vero anche il contrario? Perché se è vero che il male può discendere dalle buone azioni… dove sta scritto che da quelle cattive può venire solo il male? Magari a volte – il modo sbagliato è quello giusto? Magari prendi la strada sbagliata e ti porta comunque dove volevi? O vedila in un altro modo, certe volte puoi sbagliare tutto, e alla fine viene fuori che andava bene?
Donna Tartt (The Goldfinch)
Quando tentano di esprimere la verità, le parole balbettano sempre in questo modo. Mi pare quasi di vederle annaspare. Non per vergogna, né per paura, ma perché è inevitabile che la nuda verità provochi un simile balbettare, espressione di una sua certa rozza natura.
Yukio Mishima (Sun & Steel)
Gran magistero della natura fu quello d'interrompere, per modo di dire, la vita col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù. Oltre alla gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall'altra è un sommo rimedio contro la monotonia dell'esistenza. Né questa si poteva diversificare e variare maggiormente, che componendola in gran parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte.
Giacomo Leopardi (Zibaldone di pensieri)
La speranza era diventata quasi una maledizione per lei. Avrebbe voluto che non ce ne fosse bisogno. Ah, che tormento quello sperare, che insulto alla propria anima. Perché non c'era un disastro chiaro, completo, in modo da non pensarci più? Questo andirivieni con la speranza era peggio della disperazione…
D.H. Lawrence (The Ladybird)
Se fossi una persona diversa, forse direi che ciò che è accaduto è una metafora della vita: le cose si rompono, a volte si aggiustano, e ci rendiamo conto che, per quanti danni possiamo subire, la vita ci ricompensa quasi sempre, spesso in modo meraviglioso. A pensarci bene, forse sono proprio quel tipo di persona.
Hanya Yanagihara (A Little Life)
Decido che quando la riporterò a casa stasera non la bacerò. Le dimostrerò che questa è solo una cena amichevole tra vicini di casa e niente di più. Camminiamo in silenzio. Il braccio di Jane rimane infilato nel mio, ma non faccio nulla per toglierlo. Non le sono mai stato così vicino fisicamente e sono dolorosamente consapevole che è passato molto tempo da quando una donna mi ha toccato in un modo così dolce. Nonostante ogni fibra del mio essere mi stia urlando di non farmi coinvolgere, il suo tocco mi piace troppo per spingerla via. E quella consapevolezza è quasi sconvolgente perché è chiaro che, probabilmente, sto combattendo una battaglia già persa con me stesso.
Sawyer Bennett (Finding Kyle)
«James,» ha cominciato, sedendosi e lisciandosi i pantaloni con la mano tesa, un suo gesto tipico, «devi dirmi tutte le tue novità». Novità, ho pensato, novità. Che concetto curioso. Certo, le vite delle altre persone progrediscono in questo modo. C'erano le novità – promozioni, matrimoni e bambini, nuovi acquisti frutto di faticosi risparmi, vacanze programmate, avventure commerciali, sogni prossimi alla realizzazione o abbandonati. Quasi tutte le "novità" in effetti riguardano il denaro. Ottenerlo, spenderlo, accumularlo e accrescerlo. Una volta che si è ottenuto tutto il denaro possibile, che fine fanno le novità? Restano solo gli amori, la procreazione e gli entusiasmi passeggeri, che prendono il posto che ha il lavoro per le altre persone.
Naomi Alderman (The Lessons)
Su Internet avevo visto vecchi rossetti Yardley – lo stick ormai ridotto a un impasto ceroso sbriciolato – in vendita per quasi cento dollari. In modo che le donne di una certa età potessero sentirlo di nuovo, quell’odore chimico di fiori. Ecco quanto ci tenevano le persone, a sapere che la loro vita era accaduta davvero, che ciò che erano state un tempo esisteva ancora da qualche parte dentro di loro.
Emma Cline (The Girls)
Era molto stressante stare a vedere quali sarebbero state le reazioni: se l’avrebbero rifiutato, o se sarebbero riusciti anche solo a capire cosa significava quando un ragazzo trans dichiarava di essere gay. Ma non per Julian. Lui l’aveva detto quasi in tono di sfida. In un modo che diceva che non gli importava cosa pensassero gli altri al riguardo. Era una cosa che lo intimidiva e lo riempiva di ammirazione al tempo stesso.
Aiden Thomas (Cemetery Boys (Cemetery Boys, #1))
La nostra epoca è alla ricerca insistente, a volte quasi disperata, di un’idea di ordine mondiale. Il caos incombe minaccioso, accompagnandosi con un’interdipendenza senza precedenti: nella proliferazione delle armi di distruzione di massa, nella disintegrazione degli Stati, nell’impatto delle devastazioni ambientali, nel persistere delle pratiche genocide e nella diffusione di nuove tecnologie che rischiano di spingere il conflitto al di fuori del controllo o della comprensione dell’uomo. Nuovi metodi di accesso all’informazione e di comunicazione uniscono differenti regioni come mai nel passato e proiettano gli eventi su scala globale, ma in un modo che impedisce la riflessione, costringendo i leader ad avere reazioni istantanee in forma di slogan. Ci aspetta forse un periodo in cui a determinare il futuro saranno forze che vanno oltre i limiti di un qualsiasi ordine?
Henry Kissinger (Ordine mondiale (Italian Edition))
«È orribile. Non voglio doverlo fare di nuovo,» mormorò. «Una volta mi è bastata.» Mery ripeté: «Non sei costretto. Zimmermann non è neppure un tuo amico. Se non te la senti, non lo fare. Lascia che si arrangi.» Gabe riusciva quasi a immaginarsi la scena: al centro della stanza Zeke, con lo sguardo puntato a terra e le mani tremanti. Davanti a lui sua madre, il volto paralizzato in una smorfia che era in pari misura disgusto e odio. «Devi venire anche tu, Mery. Devi aiutarmi.» «Cosa? Vuoi davvero aiutarlo?» «Sì.» «Perché?» «Forse c’è una possibilità. Un modo per far sì che la cosa funzioni. Zeke e sua madre, intendo. Forse, se lo aiuto, lui non finirà…» «Come te?» concluse Mery con la tristezza negli occhi. «Non vuoi che affronti quello che affronti tu ogni giorno.» Lui annuì. «Tu devi esserci, Mery.» «Io odio Zimmermann.» «Lo so. Ma ami me. Non è solo Zeke ad avere bisogno di aiuto.»
Susan Moretto (Principessina)
Forse il libro [Don Chisciotte] continua ad essere, tra i grandi, uno dei meno letti. Ma ha una vitalità che va al di là delle pagine, che si è incorporata a un modo di esistere, all’esistenza stessa in quel che ha di nobiltà, di poesia. Ne abbiamo il senso ad Alcalà de Henares, città in cui Cervantes è nato e che conserva, improbabile ma suggestiva, la casa natale. Nella vasta e armoniosa piazza in cui sorge il monumento a lui dedicato, di tanto in tanto attraversata dal volo lento delle cicogne, il pomeriggio primaverile ha portato intere famiglie. I bambini corrono nei loro giochi; gli adulti se ne stanno in riposo, come assorti. Non è domenica, ma c’è un’aria domenicale. Le prime due parole del prologo ci affiorano quasi automaticamente: “desocupado lector”. Ecco dei lettori disoccupati, disoccupati al punto che mai leggeranno il libro. Poiché - riposo, speranza e altro - stanno vivendolo.
Leonardo Sciascia (Ore di Spagna)
«Tu non sai chi io sia. Non mi conosci e mi hai appiccicato addosso un’etichetta.» «Più o meno come hai fatto tu con la storia del ragazzo d’oro.» Gabe aprì la bocca, poi la richiuse di scatto e uscì dall’auto, allontanandosi lungo il marciapiede. I lacci slacciati degli anfibi rischiavano di farlo inciampare a ogni passo, specie quando si voltò ritornando rapido sui suoi passi. Zeke abbassò il finestrino, rassegnato a ricevere una sequela di insulti. «Hai ragione.» Quando sentì quelle parole uscire dalla bocca di Gabe, quasi non le capì. «Hai ragione. Ti ho attaccato un’etichetta e non avrei dovuto. Non ti farò le mie scuse, perché tu ti sei comportato allo stesso modo. Ma cercherò di conoscerti meglio, se tu farai lo stesso.» «D’accordo.» «E continuerò a chiamarti ragazzo d’oro.» Zeke sorrise. «D’accordo.» In qualche modo anche Gabe si ritrovò a rivolgergli un sorrisino. «Buonanotte, ragazzo d’oro. »
Susan Moretto (Principessina)
Mi chiesi se prima o poi ci si faceva l’abitudine. O forse a furia di accumulare debiti di malessere alla fine si trova un modo per ripagarli tutti in una volta, riportando in pareggio il bilancio delle emozioni? Oppure la presenza dell’altro, che fino a ieri mattina sembrava quasi un intruso, diventa perfino più necessaria perché ci protegge dal nostro inferno individuale, tanto che la persona che ci tormenta di giorno è la stessa che ci dà sollievo la notte?
André Aciman (Call Me By Your Name (Call Me By Your Name, #1))
Zeke posò la mano sulla guancia di Gabe, cercando di capire se stesse piangendo in silenzio. Ma trovò la pelle liscia e asciutta, in alcuni punti bollente per le botte, e d’istinto tolse la mano. Non voleva ferire Gabe, in nessun modo. Però il ragazzo gli riprese la mano, intrecciando le dita insieme, e se la posò nuovamente sulla guancia. Le loro dita intrecciate, calde quelle di Gabe e fresche quelle di Zeke, sembrarono confortare entrambi. Gabe aveva già fatto quel gesto, la sera di Halloween, quando Zeke era fuori di sé, e anche in quell’occasione il contatto lo aveva placato, calmato. Non dappertutto: c’erano parti del suo corpo che erano sembrate in fiamme per quel semplice tocco, la notte di Halloween così come in quel frangente. Zeke si mosse a disagio nel letto, grato che il buio nascondesse le guance arrossate, e Gabe sciolse le loro dita, lasciando tuttavia la mano di Zeke sulla sua guancia Gabe gli catturò le labbra. Un bacio gentile, quasi timoroso.
Susan Moretto (Principessina)
Chi sa ballare alla persiana?” domando. Tutte si voltano a guardare Sanaz. Lei si schermisce, fa di no con la tessta. Cominciamo ad insistere, a incoraggiarla, formiamo un cerchio intorno a lei. Quando inizia a ballare, piuttosto a disagio, battiamo le mani e ci mettiamo a canticchiare. Nassrin ci chiede di fare più piano. Sanaz riprende, quasi vergognandosi, a piccoli passi, muovendo il bacino con grazia sensuale. Continuiamo a ridere e a scherzare, e lei si fa più ardita; muove la testa a destra e sinistra, e ogni parte del suo corpo vibra; balla anche con le dita e le mani. Sul suo volto compare un'espressione particolare, spavalda, ammicante, che attrae, cattura, e al tempo stesso sfugge e si nasconde. Appena smette di ballare, tuttavia, il suo potere svanisce. Esistono varie forme di seduzione, ma quella che emana dalle danze tradizionali persiane è unica, una miscela di impudenza e sottigliezza di cui non mi pare esistano eguali nel mondo occidentale. Ho visto donne di ogni estrazione sociale assumere lo stesso sguardo di Sanaz, sornione, seducente e l'ho ritrovato anni dopo sul viso di Leyly, una mia amica molto sofisticata che aveva studiato in Francia, vedendola ballare al ritmo di una musica piena di parole come naz e eshveh e kereshmeh, che potremmo tradurre con “malizia”, “provocazione”, “civetteria”, senza però riuscire a rendere l'idea. QUesto tipo di seduzione è al tempo stesso elusiva, vigorosa e tangibile. Il corpo si contorce, ruota su se stesso, si annoda e si snoda. Le mani si aprono e si chiudono, i fianchi sembrano avvitarsi e poi sciogliersi. Ed è tutto calcolato: ogni passo ha il suo effetto, e così il successivo. È un ballo che seduce in un modo che Daisy Miller non si sognava neanche. È sfacciato, ma tutt'altro che arrendevole. Ed è tutto nei gesti di Sanaz. La veste nera e il velo - che ne incorniciano il volto scavato, gli occhi grandi e il corpo snello e fragile - conferiscono uno strano fascino ai suoi movimenti. Con ogni mossa, Sanaz sembra liberarsene: la vesta diventa sempre più leggera, e aggiunge mistero all'enigma della danza.
Azar Nafisi (Reading Lolita in Tehran: A Memoir in Books)
«Allora, hai intenzione di baciarmi?» «Santo Dio,» mormoro, desiderando poterle dire, No, non ho intenzione di baciarti. Né ora né mai. Ma dalla mia bocca non esce altro. Ridacchia ancora. «Certo che vuoi baciarmi.» «Mi piacerebbe di più torcerti il collo,» le ringhio contro. Lei ride di me ancora una volta, e le mie labbra si contraggono… di nuovo. «Seriamente, però,» continua solennemente fermandosi a metà del passo e stringendomi la mano intorno al braccio, il che mi fa fermare a mia volta e girare verso di lei. Il suo sguardo è turbato, ogni traccia di divertimento è sparita. «Ti sto prendendo in giro. Non devi baciarmi.» La fisso un momento riflettendo, i miei occhi si spostano sul suo bel viso innocente. La sua testa si inclina di lato, quasi come se stesse cercando di capire cosa si nasconde dentro la mia testa. «Ci penserò,» le dico alla fine. «E ti farò sapere una volta arrivati a casa tua.» Lei mi sorride. E questo mi fa stringere lo stomaco e formicolare la pelle, in modo non del tutto sgradevole. Quindi immagino di avere già la risposta.
Sawyer Bennett (Finding Kyle)
Questo folle uomo mi sta facendo tornare la gioia di vivere, quella gioia che avevo perso alla vista del corpo di mia madre privo di vita e che era stata sostituita, col tempo, da semplice gioia. Esiste una profonda, ma ineffabile, differenza tra la gioia e la gioia di vivere e sono pochi coloro i quali riescono a coglierla. La gioia è solo un aspetto esteriore, quasi un accessorio posto sul nostro corpo, mentre la Gioia di vivere, quella con la G maiuscola, è un modo di essere, una parte dell’essenza dell’individuo. È un qualcosa che si sente dentro." cit. Silvia Devitofrancesco, "Lo specchio del tempo
Silvia Devitofrancesco (Lo specchio del tempo)
Stavo pensando", disse Prokop come se volesse farsi perdonare il suo silenzio, "com'è strano quando il vento gioca con gli oggetti inanimati. E' quasi miracoloso il modo in cui cose che giacciono in giro senza un briciolo di vita improvvisamente cominciano a svolazzare. Non ve ne siete accorti? Una volta stavo in una piazza deserta e guardavo un mucchio di cartacce che si rincorrevano l'un l'altra. Non sentivo il vento perché stavo in un angolo riparato, ma eccole là, ammassate insieme in una vera e propria danza della morte. Un attimo dopo sembrava che avessero stipulato un armistizio ma, tutto a un tratto, uno sbuffo irresistibile della memoria sembrava soffiare su di loro, e ricominciavano, ognuna correndo dietro alla sua vicina finché scomparvero dietro l'angolo. Rimase solo un giornale intero; stava impotente sul selciato, e sbatteva astiosamente di qua e di là: sembrava un pesce fuor d'acqua che boccheggiasse. Non potei fare a meno di pensare che noi, in fin dei conti, siamo proprio come quei pezzetti di carta svolazzanti, nient'altro. Siamo trascinati di qua e di là da un "vento" invisibile e incomprensibile, che ci obbliga a comportarci in un certo modo, per quanto -da vanitosi- ci vantiamo della nostra forza di volontà.
Gustav Meyrink (The Golem)
Ma appena un oggetto emanava noia, non avevo quasi bisogno di guardare la didascalia: era un pettine (o una maschera, o un’effigie) originaria del Vanuatu, che somigliava in modo straordinario ai pettini (o alle maschere, o alle effigi) che si vedono nel novantanove per cento dei musei di anticaglia municipale del mondo intero, dove ci tocca contemplare le eterne punte di silice o le collane di denti di cui i nostri lontani antenati hanno creduto necessario stipare le loro grotte. Esporre quel genere di cose mi è sempre sembrato assurdo, come se gli archeologi del futuro si mettessero in testa di esporre le nostre forchette di plastica e i nostri piatti di carta.
Amélie Nothomb
Il mondo vi era ritratto in modo inevitabilmente parziale ma rigorosamente privo di gerarchie. Le annotazioni – sempre molto sintetiche, quasi telegrafiche – testimoniavano una mente precocemente consapevole della natura articolata e pluralistica del mistero della vita: perché la luna non è sempre uguale, cos’è la Polizia, come si chiamano i mesi, quando si piange, natura e scopi del binocolo, origini della diarrea, cos’è la felicità, sistema rapido di allacciamento delle stringhe, nomi di città, utilità delle bare da morto, come diventare Santo, dov’è l’Inferno, regole fondamentali per la pesca alla trota, lista dei colori disponibili in natura, ricetta del caffellatte, nomi di cani famosi, dove va a finire il vento, festività dell’anno, da che parte è il cuore, quando finirà il mondo. Cose così.
Alessandro Baricco (Castelli di rabbia)
«Parlami.» Riesco a dirlo così piano che non sono sicuro che mi abbia sentito, finché non sento le sue labbra distendersi in un sorriso sui miei addominali. «Travis, devi essere dannatamente malato per chiedermi una cosa simile.» La sua voce grave mi fa rabbrividire. È Mack, lui, con la sua bella bocca da cattivo ragazzo, la sua voce grave e calda che richiama il sesso. Scende sui miei addominali e la sua lingua continua a uccidermi dolcemente tra un bacio e l’altro, mi lecca l’ombelico e continua quello che sta facendo, facendomi impazzire. Vorrei toccarlo anche io, ma le mie mani sono inerti, il mio corpo è privo di energia e solo Mack e le sue carezze riescono a ravvivarmi. La sua bocca mi scivola sul petto, lecca ogni centimetro del mio corpo a sua disposizione e il suo sedere, il suo magnifico sedere si strofina sul mio cazzo già duro e dolorante a sentirlo così vicino, e tuttavia troppo lontano. Si raddrizza, sento i rumori dei suoi vestiti che cadono al suolo, poi ritorna su di me. Il dolore è sempre là, ma lui è riuscito a relegarlo in secondo piano, dietro tutto quel desiderio accumulato tra noi e il piacere che mi offre. Probabilmente dovrei respingerlo. Sì, dovrei proprio farlo se ne fossi capace, ma anche se fossi pienamente lucido, lo lascerei fare perché è semplicemente troppo bello. Di solito non faccio troppi preliminari, non in questo modo, non con tanta dolcezza da essere quasi doloroso aspettare la prossima carezza o la prossima sensazione che scatenerà la sua bocca su di me. Mi scopro ad apprezzare questo suo modo di fare, perché è Mack e anche se può essere focoso, è anche molto tenero e dolce
Amheliie (Road)
Era uno spettacolo straziante vedere quella donna entrare un giorno dopo l'altro nel cortile della prigione per cercare con ansia e fervore, con l'amore e con le suppliche di intenerire il cuore di pietra del figlio. Ma invano perché egli rimaneva cupo, ostinato e impenitente. Non riuscì ad addolcirne per un istante la durezza della espressione nemmeno l'insperata commutazione della pena di morte in quattordici anni di lavori forzati. Infine la pazienza e la rassegnazione che tanto a lungo avevano sorretto la donna non poterono più dominare le infermità fisiche. Ella si trascinò ancora una volta lungo la via per andare a vedere il figlio, ma le mancarono le forze e cadde a terra priva di sensi. Furono allora poste alla prova la freddezza e l'indifferenza del giovane, e la privazione di cui non poté non avvertire il colpo lo fece quasi impazzire. Un giorno era trascorso e sua madre non era andata a trovarlo; e poi un altro passò senza che gli andasse vicino e un altro ancora, ma non la vide; mancavano ormai solo ventiquattro ore a quello che sarebbe stato forse l'addio supremo. Oh, come allora gli si affollarono alla mente le memorie da tanto tempo dimenticate dei giorni lontani! Correva sconvolto avanti e indietro per l'angusto cortile, come se agitandosi a quel modo avesse potuto affrettare la visita attesa: e con quale amarezza lo investì la realtà della sua condizione di impotente desolazione quando seppe la verità! Sua madre, la sola persona cara che avesse mai avuto sulla terra, era malata, forse morente, meno di un miglio lontano da dove egli si trovava, e se fosse stato libero dai ceppi, gli sarebbero bastati pochi minuti per recarsi al suo capezzale. Corse al cancello, si aggrappò alle sbarre di ferro con la forza della disperazione, e le scosse fino a farle risonare, si gettò contro l'enorme muraglia quasi sperando si aprirsi fra le piante una via d'uscita; ma il cancello e le mura si fecero beffa dei suoi tentativi, ed egli si torse le mani e pianse come un fanciullo.
Charles Dickens (The Pickwick Papers)
Parigi non è una città, è l'immagine, il segno, il simbolo della Francia, il suo presente e il suo passato, l'immagine della sua storia, della sua geografia, della sua più recondita essenza. E' una città intrisa di significati, più di Londra, Madrid, Stoccolma e Mosca, quasi allo stesso modo di Pietroburgo, New York o Roma. Parigi trasuda questi significati, ha tanti aspetti, è sfaccettata, parla di futuro e di passato, è stracolma di manifestazioni del presente, sprigiona l'aura pesante, ricca e densa del tempo in cui viviamo. Non ci si può vivere ignorandola, non è possibile isolarsi, rinchiudersi: penetra comunque in casa, nella stanza, in noi stessi, ci cambierà, ci costringe rà a crescere, a invecchiare, rovinandoci o innalzandoci, forse uccidendoci. Esiste presente ed eterna, sta intorno e dentro di noi. Puoi amarla o odiarla, ma non le sfuggirai. Parigi suscita una catena di associazioni e tu stesso ne sei un anello. Avvinto, non sei più quello di prima: ti inghiotte, ma è tua, vi siete mangiati a vicenda, ti scorre nel sangue.
Nina Berberova
Resta strano e quasi inesplicabile il fatto che nella città di Atene, dove le donne erano tenute in reclusione quasi orientale, come odalische o serve, il teatro abbia ugualmente prodotto figure come Clitemnestra e Cassandra, Atossa e Antigone, Fedra e Medea, e tutte le altre eroine che dominano i drammi del "misogino" Euripide. Ma il paradosso di questo mondo, in cui nella vita reale una donna rispettabile non poteva quasi farsi vedere sola per strada, e tuttavia sulla scena, la donna uguaglia e supera l'uomo, non è stato mai spiegato in modo soddisfacente. Nella tragedia moderna esiste lo stesso prodominio. Ad ogni modo, una scorsa all'opera di Shakespeare (e anche a quella di Webster, ma non di Marlowe o Jonson) basta a dimostrare che questo preodominio, questa iniziativa delle donne, persiste da Rosalind a Lady Macbeth. E' così anche in Racine; se delle sue tragedia portano il nome dell'eroina; e quale dei suoi personaggi maschili possiamo contrapporre ad Ermione e ad Andromaca, a Berenice e a Rossana, a Fedra e ad Atalia? Così di nuovo con Ibsen, quale uomo possiamo paragonare a Solveig e Nora, Hedda e Hilda Wangel e Rebecca West?
F.L. Lucas (Greek Tragedy and Comedy)
Nessuno ha idea di cosa significhino quelle parole, e se fin da quando Gioia tre mesi fa è arrivata in questa scuola è stata subito additata come Quella-non-del-tutto-a-posto o Quella-con-un-sacco-di-problemi, è anche per quelle quattro parole che si riscrive, ogni mattina, sul braccio. «Ma che roba è? Inglese o cosa?» le aveva chiesto il terzo giorno Giulia Batta, la compagna che nella classifica delle più belle della classe figurava esattamente al primo posto. «O cosa», aveva risposto Gioia, senza neanche guardarla. Avrebbe voluto spiegarle che era in tedesco, quella scritta, e che erano parole quasi intraducibili ma significavano più o meno: “Quando la felicità è qualcosa che cade”, e forse anche dirle perché si scriveva addosso proprio quelle parole, ogni giorno: ma il modo in cui glielo aveva chiesto, gli sguardi di tutti lì intorno, be’, insomma, alla fine tutto quello che aveva risposto era stato: «O cosa». Che per inciso, per settimane intere, erano state anche le uniche parole che aveva scambiato coi suoi nuovi compagni. Il fatto è che certe cose le puoi dire solo a chi sai che le può capire. Che è anche il motivo per cui parliamo così poco, di quello che ci importa davvero.
Enrico Galiano (Eppure cadiamo felici)
C'era quindi poco da dubitare che, dopo quell'incontro quasi fatale, Achab avesse sempre nutrito contro la balena una sfrenata ansia di vendetta, tanto più profonda perché, nella sua incontrollata smania, aveva finito con l'identificare con quell'animale non solo tutti i suoi dolori fisici, ma anche tutte le sue esasperazioni intellettuali e spirituali. La Balena Bianca nuotava davanti a lui come l'ossessiva incarnazione di tutte quelle forze maligne da cui alcuni uomini profondi si sentono divorati, finché quel che loro rimane per continuare a vivere non è che mezzo cuore e mezzo polmone. [...] Tutto ciò che sconvolge e fa impazzire di più, tutto ciò che fa rimescolare il sedimento sul fondo della bottiglia , ogni verità che contenga una parte maligna, tutto ciò che schianta i nervi a fa indurire il cervello, tutto il male, per l'invasato Achab, erano personificati in modo visibile, e tale da rendere praticamente possibile attaccarli, in Moby Dick. Sulla bianca gobba della balena aveva accumulato la somma di tutta la rabbia, di tutto l'odio sentiti dalla sua stirpe da Adamo in poi; e quindi, neanche avesse un mortaio al posto del petto, le sparava contro, come un proiettile, il suo cuore.
Herman Melville (Moby-Dick or, The Whale)
La guerra è causa di morte come ce n'è tante, come il cancro e la tubercolosi, come la spagnola e la dissenteria. Solo che i casi di morte qui sono più frequenti, più svariati e più crudeli. [...] Tutti siamo a questo modo, non soltanto noi qui; ciò che fummo un tempo non conta, quasi non lo sappiamo più. Le differenze create dalla cultura e dalla educazione sono quasi cancellate, appena riconoscibili. Talvolta rappresentano un vantaggio, nello sfruttare una situazione; ma portano seco anche qualche svantaggio, perché creano degli impacci che bisogna poi superare. È come se in passato fossimo stati monete di vari paesi: fuse poi nel medesimo crogiuolo, e che ormai portano tutte la stessa impronta. Per riscontrare ancora le differenze fra noi, bisognerebbe analizzare accuratamente il metallo. Siamo soldati anzitutto, e solo in linea secondaria e in una forma strana e quasi vergognosa siamo individui. S'è creata una vasta fraternità, in cui si fonde stranamente qualcosa del cameratismo delle canzoni popolari, col senso di solidarietà dei galeotti e col disperato attaccamento tra condannati a morte. È una vita che ha per ambiente e per sfondo il pericolo, la tensione morale, il mortale abbandono, e che diventa un fuggevole godimento in comune delle poche ore di tregua, nel modo più semplice e senza sentimentalismo.
Erich Maria Remarque
A volte alzavano gli occhi dai loro libri, si sorridevano e tornavano a leggere. Altre invece era solo Stoner che sollevava lo sguardo e indugiava sulle curve aggraziate della schiena di Katherine e sul suo collo affusolato, su cui ricadeva sempre un ricciolo di capelli. Poi, lentamente, veniva colto da un desiderio calmo e rilassato, e allora si alzava, si fermava dietro di lei e le posava delicatamente le braccia sulle spalle. Katherine drizzava la schiena e abbandonava la testa sul suo petto mentre lui avanzava con le mani nella veste aperta, toccandole sul suo petto mentre lui avanzava con le mani nella veste aperta, toccandole dolcemente i seni. Facevano l'amore, restavano sdraiati per un po' e tornavano a studiare, come se l'amore e lo studio fossero un unico processo. Era una delle eccezioni alla cosiddetta "opinione condivisa" che impararono a conoscere durante quell'estate. Entrambi erano stati educati nel rispetto di una tradizione secondo cui, in un modo o nell'altro, la vita della mente e la vita dei sensi sono separate, anzi addirittura nemiche. Avevano sempre creduto, senza mai porsi veramente il problema, che quando due persone si scelgono, ce n'è sempre una che subisce. Mai avevano immaginato che potessero arricchirsi l'un l'altra; e poiché l'esperienza della verità era arrivata prima della teorie, si convinsero che fosse una scoperta tutta loro. Cominciarono a stilare una lista di queste eccezioni all'opinione data" e a custodirle come un tesoro: li aiutava a isolarsi dal mondo che gliele avrebbe imposte tali opinioni e li avvicinava ancor di più, quasi commuovendoli.
John Williams (Stoner)
«Che cosa è l'amore?», disse Melmoth, «è questa la domanda? voi dubitate del mio amore», rispose Isidora; «ditemi allora, che cosa è Mi affidate un compito», disse Melmoth, sorridendo senza allegria, «cosi affine ai miei sentimenti e ai miei pensieri abituali, che lo svolgerò di certo in modo ineguagliabile. Amare, bella Isidora, è vivere in un mondo creato dal cuore, nel quale le forme e i colori sono lucenti quanto ingannevoli e irreali Per quelli che amano non c'è né giorno ne notte, né estate né inverno, né compagnia né solitudine. La loro deliziosa ma illusoria esistenza non ha che due momenti, cosi segnati nel calendario del cuore: presenza e assenza. Essi ostituiscono tutte le distinzioni della natura e della società. Il mondo per loro non contiene che un solo individuo, e quell'individuo è per loro il mondo intero e il suo unico abitante. L'atmosfera della sua presenza è la sola in cui possano respirare, e la luce dei suoi occhi è l'unico sole della loro creazione Allora io amo», disse Isidora dentro di sé Amare», continuò Melmoth, «è vivere un'esistenza piena di contraddi zioni, sentire che l'assenza è insopportabile, e soffrire quasi altrettanto in presenza dell'oggetto amato; avere mille pensieri quando siamo lontani da lui, immaginare come sarà bello confessarglieli, e quando viene il momento atteso sentire, per una timidezza opprimente e inspiegabile, che siamo inca paci di esprimerne anche uno soltanto; essere eloquenti in sua assenza e muti n sua presenza; attendere l'ora del suo ritorno come l'alba di una nuova esistenza, e quando arriva sentirsi privi delle facoltà alle quali doveva dare nuovo vigore; desiderare la luce dei suoi occhi come il viandante del deserto attende il levar del sole, e quando sorge abbagliante sul nostro mondo rinato essere sopraffatti dalla luce intollerabile e quasi desiderare che sia di nuovo notte... questo è amare».
Charles Robert Maturin
Cos'altro posso fare per incoraggiarvi a far fronte alla vita? Ragazze, dovrei dirvi – e per favore ascoltatemi, perché comincia la perorazione – che a mio parere siete vergognosamente ignoranti. Non avete mai fatto scoperte di alcuna importanza. Non avete mai fatto tremare un impero, né condotto in battaglia un esercito. Non avete scritto i drammi di Shakespeare, e non avete mai impartito i benefici della civiltà ad una razza barbara. Come vi giustificate? È facile dire, indicando le strade, le piazze, le foreste del globo gremite di abitanti neri e bianchi e color caffè, tutti freneticamente indaffarati nell'industria, nel commercio, nell'amore: abbiamo avuto altro da fare. Senza la nostra attività nessuno avrebbe solcato questi mari, e queste terre fertili sarebbero state deserto. Abbiamo partorito e allevato e lavato e istruito, forse fino all'età di sei o sette anni, i milleseicentoventitré milioni di esseri umani che secondo le statistiche sono attualmente al mondo; e questa fatica, anche ammettendo che qualcuno ci abbia aiutate, richiede tempo. C'è del vero in quel che dite – non lo nego. Ma nello stesso tempo devo ricordarvi che fin dal 1866 esistevano in Inghilterra almeno due colleges femminili; che, a partire dal 1880, una donna sposata poteva, per legge, possedere i propri beni; e nel 1919 – cioè più di nove anni fa – le è stato concesso il voto? Devo anche ricordarvi che da ben dieci anni vi è stato aperto l'accesso a quasi tutte le professioni? Se riflettete su questi immensi privilegi e sul lungo tempo in cui sono stati goduti, e sul fatto che in questo momento devono esserci quasi duemila donne in grado di guadagnare più di cinquecento sterline l'anno, in un modo o nell'altro, ammetterete che la scusa di mancanza di opportunità, di preparazione, di incoraggiamento, di agio e di denaro non regge più. Inoltre gli economisti ci dicono che la signora Seton ha avuto troppi figli. Naturalmente dovete continuare a far figli, ma, così dicono, solo due o tre a testa, non dieci o dodici.
Virginia Woolf (A Room of One's Own)
Dovunque arrivasse, in questa congiuntura, l’influsso dell’indefinibile sul contegno di Isabel, non si trattava certo del pensiero, anche se non formulato, di una sua unione con Caspar Goodwood; poiché, se aveva potuto opporre resistenza ad esser conquistata dalle grandi mani tranquille del suo corteggiatore inglese, era per lo meno altrettanto lontana dall’esser disposta a permettere al giovane di Boston di prendere esplicito possesso di lei. Dopo aver letto la sua lettera, il sentimento nel quale cercava rifugio era quello di considerare criticamente questo suo esser venuto all’estero; poiché parte dell’ascendente che egli aveva su di lei stava nel fatto che sembrava privarla del suo senso della libertà. C’era un impeto di sgradevole intensità, quasi una crudeltà fisica, in quel suo modo di ergerlesi di fronte. A volte era stata perseguitata dall’idea, dal pericolo, della sua disapprovazione e si era domandata - riguardo che mai per nessun altro aveva avuto in egual misura - se a lui sarebbe piaciuto ciò che lei faceva. La difficoltà stava nel fatto che, più di ogni altro uomo che avesse mai conosciuto, più del povero Lord Warburton (aveva cominciato ormai ad elargire a Sua Grazia il beneficio di questo epiteto) Caspar Goodwood adoperava con lei una energia - ed ella l’aveva già sentita come una forza - che era propria della sua vera natura. Non era per niente questione delle sue qualità; era questione dello spirito che stazionava nella chiara fiamma dei suoi occhi, come una persona che non si stancasse mai di guardar dalla finestra. Le piacesse o no, egli insisteva, sempre, con tutto il suo peso, con tutta la sua forza: anche nei rapporti più comuni con lui, bisognava tener conto di questo. L’idea di una limitazione della libertà era per lei particolarmente sgradevole, ora che aveva appena dato una sorta di risalto alla sua indipendenza guardando senza batter ciglio la grossa esca offertale da Lord Warburton, e riuscendo tuttavia a distoglierne lo sguardo. A volte era sembrato che Caspar Goodwood si schierasse dalla parte del destino di lei, che fosse il fatto più ostinato che ella avesse conosciuto; in tali momenti diceva a se stessa che poteva sfuggirgli per un po’, ma che alla fine doveva venir con lui a patti, e sarebbero stati senza dubbio patti a lui favorevoli. Il suo impulso era stato di valersi delle cose che potessero aiutarla a opporre resistenza a questa costrizione; e quest’impulso aveva avuto gran parte nel suo caloroso assenso all’invito della zia, giuntole in un momento in cui si attendeva di giorno in giorno di vedersi di fronte il signor Goodwood, e in un momento in cui era lieta di avere una risposta pronta per una cosa che lui, ne era certa, le avrebbe detto.
Henry James (The Portrait of a Lady)
L’incanto della costa mediterranea, a conoscerla meglio, non faceva che divenire più profondo per la nostra eroina, poiché era la soglia d’Italia, la porta delle meraviglie. L’Italia, ancora veduta e sentita in modo imperfetto, le si stendeva dinanzi come una terra promessa, come una terra in cui l’amore del bello poteva essere confortato da un sapere senza fine. Tutte le volte che andava per la spiaggia con il cugino - gli era compagna nella passeggiata quotidiana - guardava al mare, con occhi bramosi, verso là dove sapeva che sorgeva Genova. Era contenta, però, di sostare sulla soglia di questa immensa avventura; anche in questi indugi preliminari c’era di che fremere. E poi le faceva l’effetto di un interludio di pace, di un placarsi del tamburo e del piffero in una vita che aveva scarse prove sinora per considerare agitata, ma che nondimeno dipingeva costantemente a se stessa alla luce delle sue speranze, dei suoi timori, delle sue fantasie, delle sue ambizioni, delle sue predilezioni, e che rifletteva codeste accidentalità soggettive in maniera sufficientemente drammatica.[...]Si smarriva in un groviglio di visioni: le cose belle da fare per una ragazza ricca, indipendente, generosa, che in quanto ad occasioni ed obblighi era di larghe, umane vedute, erano un ammasso imponente. Il suo patrimonio divenne perciò, nei suoi pensieri, una parte del suo io migliore; le conferì importanza, le conferì persino, nella sua immaginazione, una certa ideale bellezza. Quel che fece per lei nell’immaginazione degli altri è un altro affare, e a suo tempo dovremo parlare anche di questo punto. Le visioni di cui ho parlato or ora si mischiavano ad altri travagli. A Isabel piaceva di più pensare al futuro che al passato; ma a volte, mentre ascoltava il mormorio delle onde del Mediterraneo, il suo sguardo volava all’indietro. Si fermava su due figure che, nonostante l’aumentare della distanza, erano ancora sufficientemente evidenti; ed erano riconoscibili senza difficoltà come quelle di Caspar Goodwood e di Lord Warburton. Era strana la rapidità con la quale queste potenti immagini erano cadute nello sfondo della vita della nostra signorina. Era proprio della sua natura, sempre, di perder fede nella realtà delle cose assenti; questa fede poteva riconvocarla, in caso di bisogno, con uno sforzo, ma lo sforzo era spesso penoso anche quando la realtà era stata piacevole. Il passato era soggetto ad apparire cosa morta, e la sua resurrezione proiettava quasi una livida luce da giorno del giudizio. Per di più la ragazta non era incline ad ammettere di vivere nella mente altrui: non era così fatua da credere di lasciar tracce indelebili. Era capace di rimanere ferita se veniva a scoprire di essere stata dimenticata; ma di tutte le libertà quella che stimava più dolce era la libertà di dimenticare.
Henry James (The Portrait of a Lady)
«Emigrai», proseguì, «e non rimpiangevo nulla di quello che mi ero lasciato dietro. Fino a quando vi ero rimasto, avevo servito la Russia per quanto era nelle mie forze; dopo averla lasciata continuavo egualmente a servirla, soltanto per il fatto che avevo ampliato la mia idea. Ma, servendola in questo modo, la servivo assai più che se fossi stato soltanto un russo, analogamente a come il francese era allora soltanto un francese e il tedesco un tedesco. In Europa questo ancora non lo capiscono. L'Europa ha creato i nobili tipi del francese, dell'inglese, del tedesco, ma del suo uomo futuro essa non sa ancora quasi nulla. E, a quanto sembra, per adesso non vuole saperne nulla. E si capisce: essi non sono liberi, mentre noi siamo liberi. Soltanto io in Europa, con la mia malinconia russa, ero libero. «Prendi nota, amico mio, di una stranezza: ogni francese può servire non soltanto la sua Francia, ma anche l'umanità, alla sola condizione di rimanere soprattutto un francese; lo stesso l'inglese e il tedesco. Il russo soltanto, anche nel nostro tempo, cioè assai prima che sia stata tirata la somma generale, è stato già dotato della capacità di diventare maggiormente russo precisamente solo quando egli è più europeo. È appunto questa la caratteristica che più essenzialmente ci distingue da tutti gli altri e da nessun'altra parte al mondo, a questo riguardo, le cose stanno come da noi. Io, in Francia, sono un francese, con un tedesco sono un tedesco, con un greco antico sono un greco e con ciò stesso sono al più alto grado russo. Con ciò stesso sono un autentico russo e servo maggiormente la Russia, perché ne propugno il pensiero principale. Io sono il pioniere di questo pensiero. Allora ero emigrato, ma avevo forse abbandonato la Russia? No, continuavo a servirla. Mettiamo pure che in Europa io non facessi nulla, mettiamo pure che mi recassi laggiù, soltanto per vagabondare (e io sapevo che mi recavo laggiù soltanto per vagabondare), ma era sufficiente anche il fatto che mi recavo laggiù, con il mio pensiero e la mia coscienza. Avevo portato laggiù la mia malinconia russa. Oh, non era soltanto il sangue di allora a spaventarmi, e nemmeno le Tuileries, ma tutto quello che doveva seguire. È destino che essi si battano ancora a lungo perché essi sono ancora troppo tedeschi e troppo francesi e non hanno ancora portato a termine il loro compito in questi ruoli. E mi addolorano le distruzioni che avverranno per tutto questo tempo. Al russo l'Europa è altrettanto cara della Russia: gli è cara ogni pietra di essa. L'Europa è la nostra patria altrettanto che la Russia. Oh, di più! Non si può amare la Russia più di quanto la ami io, ma non mi sono mai rimproverato per il fatto che Venezia, Roma, Parigi, i tesori delle loro scienze e delle loro arti, mi sono più cari della Russia. Oh, ai russi sono care queste vecchie pietre straniere, questi miracoli del vecchio mondo del Creatore, queste schegge di sacri miracoli; e ciò ci è addirittura più caro che a loro stessi!
Fyodor Dostoevsky (The Adolescent (Vintage Classics))
Poiché il mondo è così pieno di morte e d'orrore, io cerco continuamente di confortare il mio cuore e di cogliere i bei fiori che sbocciano in mezzo a questo inferno. Trovo piacere e dimentico per un'ora l'orrore. Ma non per questo esso cessa d'esistere." "Hai detto molto bene. Dunque tu ti trovi nel mondo circondato di morte e d'orrore e per sfuggire ad esso cerchi il piacere. Ma il piacere non dura e ti rilascia poi nel deserto." "Si, proprio così." "Così avvenne alla maggior parte degli uomini, ma pochi lo sentono con la tua forza e con la tua veemenza, e pochi hanno il bisogno di rendersi conto di questi sentimenti... oltre a questo, non hai sperimentato qualche altra via?" "Oh sì, certo. Ho provato la via dell'arte." "Ma quale fu per il frutto, il significato dell'arte?" "Fu il superamento della caducità. Vidi che della farsa e della danza macabra della vita umana qualcosa rimaneva e durava: le opere d'arte. Certo anch'esse un giorno o l'altro passano, bruciano o si rovinano o vengono distrutte. Ma ad ogni modo durano parecchie generazioni e formano al di là del momento un quieto regno d'immagini e di cose sacre. Collaborare a questo mi pare un bene e un conforto, poiché è quasi rendere eterno ciò ch'è transitorio." "Questo mi piace molto, Boccadoro... Io credo però che con la tua definizione tu non hai esaurito ciò che vi è di meraviglioso nell'arte. Credo che l'arte non consista solo nello strappare alla morte e portare a più lunga durata, con la pietra, col legno e coi colori, qualcosa che esiste ma è mortale." "Hai ragione", esclamò Boccadoro con fervore, "non avrei creduto che tu conoscessi l'arte così a fondo! L'immagine originaria di una buona opera d'arte non è una figura reale, viva, quantunque questa possa esserne l'occasione determinante' L'immagine originaria non è carne e sangue, è spirituale. È un'immagine che ha la sua dimora nell'anima dell'artista." "Molto prima che una figura artistica diventi visibile e acquisti realtà, essa esiste come immagine nell'anima dell'artista! Questa immagine dunque, questa immagine originaria è esattamente ciò che gli antichi filosofi chiamano 'idea'". "Ebbene, .. ammetti che fra la confusione e i dolori di quel campo di battaglia che è la vita, in questa danza macabra senza fine e senza senso dell'esistenza corporea, esiste lo spirito creatore. .. Questo spirito in te non è quello di un pensatore, è quello di un artista. Ma è spirito, ed esso ti mostrerà la via per uscire dal torbido garbuglio della vita dei sensi, dalla eterna alternativa fra piacere e disperazione." In quel momento parve a Boccadoro che la sua vita avesse acquistato un senso, come se egli la guardasse dall'alto e ne vedesse chiaramente le tre grandi tappe: la dipendenza da Narciso, la liberazione - il periodo della vita libera e vagabonda - e il ritorno, il riposo, l'inizio della maturità e del raccolto. ... Ma egli aveva trovato finalmente con Narciso il rapporto che gli conveniva, non più di dipendenza, ma di libertà e di reciprocità. Poteva ormai essere ospite di quello superiore senza umiltà poiché l'altro aveva riconosciuto in lui il suo pari, il creatore.
Hermann Hesse (Narcissus and Goldmund)
Pur essendosi ormai rassegnata a tenere il cappello fermo con la mano destra, con la quale reggeva pure l’ombrellino e una piccola borsa di velluto blu, Miss Portland procedeva spedita, lo sguardo fisso a terra, ormai a pochi metri dal calesse di Maylon. E lo avrebbe superato senza prestare alcuna attenzione, né all’uomo che lo guidava né al cavallo che lo tirava, se l’ottavo conte di Maylon non ne fosse smontato con un salto e non le si fosse parato davanti sbarrandole la strada. «Miss Portland, è un piacere insperato incontrarvi.» Sophie sussultò e sollevando lo sguardo si trovò di fronte quell’uomo. Che nelle ultime due settimane tante volte era riuscita abilmente a evitare. Lo fissò senza nascondere la propria sorpresa e, con un semplice «Lord Maylon» e una frettolosa riverenza, si apprestò a proseguire il proprio cammino. Tentativo sprecato, perché lui, di nuovo, le si parò davanti. Che cosa voleva da lei? «Ho appena fatto visita alla vostra madrina, illudendomi di incontrarvi, Miss Portland. Ma è evidente che non ho avuto questa fortuna. Così, quando vi ho vista, ho sperato che mi avreste fatto l’onore di lasciarvi ricondurre a casa.» La mano ancora sul cappello, il pericoloso ombrellino puntato verso di lui come una lancia in resta, Sophie socchiuse gli occhi come per osservarlo meglio e, senza giri di parole, gli chiese: «Per quale ragione, Lord Maylon, vorreste ricondurmi a casa, quando sono quasi arrivata?» *** Tutte le risposte che vennero alle labbra di sua signoria non avrebbero potuto essere riferite a Sophie senza il ricorso a imbarazzanti spiegazioni. Se le avesse detto che voleva riaccompagnarla a casa per poter rimanere finalmente solo con lei, anche se per pochi minuti, avrebbe dovuto spiegarle anche il perché di quel desiderio. Avrebbe dovuto confessarle che da quando si erano incontrati non faceva che pensare a lei. Con un’intensità fastidiosa e insistente, tanto da non essere più riuscito a guardare né tantomeno a toccare un’altra donna. No, questa spiegazione era fuori luogo, l’avrebbe scandalizzata: era una debuttante, dopo tutto. Avrebbe potuto dirle che voleva respirare il suo profumo, che sapeva di mughetti e viole, gioire del suo sorriso coinvolgente e pericolosamente sensuale, sentirsi circondato dalla vitalità e dal calore che il suo corpo sprigionava, ascoltare la sua voce e perdersi nei suoi occhi. Scartò anche questa ipotesi, ritenendo che tale risposta avrebbe potuto apparire a Miss Portland non solo esagerata ma del tutto sciocca. Quindi, con tono rude e sguardo severo, si limitò a fornirle più che una sola motivazione, un intero elenco di ragioni inappuntabili. «Primo, perché è tardi, Miss Portland, e Lady Rumphill era molto preoccupata che non foste ancora rientrata a casa. Secondo, perché la borsa che portate è talmente pesante che, se non ve ne liberate subito, domani avrete difficoltà a muovere le braccia... a proposito, quando contate di leggere tutti quei libri, Miss Portland?... e, terzo, perché altrimenti finirete col perdere quel delizioso cappello di paglia che a quanto pare non vuole rimanervi sulla testa. Forse perché la vostra testa è talmente dura da scoraggiare anche un cappello. Allora, salite o devo convincervi in altro modo?» «È questo che pensate della mia testa, my lord?» gli rispose lei, le labbra arrotondate in un Oh! oltraggiato. «Questo, e molto altro.» «Non oso davvero chiedervi cosa intendiate per molto altro, ma presumo sia meglio evitare di darvi quest’ulteriore soddisfazione.» E mentre diceva queste parole, docile docile Miss Portland gli permise di aiutarla a salire sul calesse, mentre lui, pur sorpreso dalla resa di lei, ancora sogghignava per quella risposta tagliente. ***
Viviana Giorgi (Zitta e ferma Miss Portland!)
[...] Tuttavia vostra maestà sogna di me quasi tutte le notti, che io ben so, E' vero che sogno, sono debolezze di donna nascoste nel mio cuore e che neppure al confessore confesso, ma, a quanto sembra, i sogni si stampano sul volto, se così me li si indovina, Allora, se mio fratello muore, ci sposiamo, Se questo sarà l'interesse del regno e se da ciò non verrà offesa a Dio né danno al mio onore, ci sposeremo, Magari morisse, che io voglio essere re e dormire con vostra maestà, sono arcistufo di essere infante, Stufa sono io di essere regina e non posso essere altro, ora come ora, pregherò perché si salvi mio marito, che non sia peggiore un altro che gli succeda, Pensa dunque vostra maestà che io sarei marito peggiore di mio fratello, Cattivi sono tutti gli uomini, la differenza è solo nel modo di esserlo, e con questa dotta e scettica sentenza si è conclusa la conversazione a palazzo, prima delle molte con cui don Francisco stancherà la regina a Belém, dove lei ora si trova, a Belas dove andrà di qui a poco, a Lisbona quando infine sarà reggente, discorrendo in camere e giardini, al punto che i sogni di donna Marianna non sono più quello che erano un tempo, così deliziosi nell'insieme, così edificanti per lo spirito, così pungenti per il corpo, ora l'infante le compare solo per dire che vuole essere re, buon pro gli faccia, per questo non vale nemmeno la pena sognare, lo dico io che sono regina. Si è ammalato gravemente il re, è morto il sogno di donna Marianna, poi il re guarirà, ma i sogni della regina non risusciteranno.
José Saramago (Baltasar and Blimunda)
«Luka?» Fece un passo verso di lui, ma l’altro lo ignorò e sparì in cucina senza nemmeno degnarlo di un’occhiata. Per un attimo, pensò di seguirlo, ma il problema era che non aveva la minima idea di cosa avrebbe potuto dire o fare, dopo che aveva mandato tutto a puttane. Sapeva bene che avrebbe semplicemente dovuto lasciare che Luka lo baciasse – non era stata sua intenzione reagire a quel modo –, ma non è che potesse premere il bottone “reset” e riprovarci. E comunque, ricordare l’espressione sul suo volto lo fece sentire il più grande pezzo di merda del mondo. In passato, non si era mai trovato in una situazione di quel tipo, in cui aveva ferito i sentimenti di qualcuno a cui teneva abbastanza da voler addirittura sistemare le cose. Detestava il senso di colpa… ma detestava ancor di più sapere di averlo ferito. Attraversò il soggiorno mordendosi il labbro, e si fermò sulla soglia della cucina. Luka era al lavello a lavare i piatti, la schiena rivolta verso Nick. Nick attese un paio di strazianti minuti, spostando il peso da un piede all’altro e tormentando un bottone della camicia. Parlare non era mai stato un problema per loro due. Desiderò quasi che Luka gli urlasse contro o che gli desse dello stronzo o del bastardo o qualcos’altro. Anche se gli avesse detto di sparire, sarebbe stato meglio di quel cazzo di silenzio. Ma Luka non disse una parola. Alla fine, quando l’aria nella stanza divenne pesante per la tensione e il silenzio prolungato si tramutò in imbarazzo, Nick girò i tacchi e andò a recuperare la propria giacca. Lui ci aveva provato. Non sapeva che altro avrebbe dovuto fare, ma non aveva intenzione di starsene lì come un patetico cane, mentre Luka faceva finta che non esistesse. Con un ultimo sguardo verso la cucina, si infilò la giacca e, in silenzio, uscì dall’appartamento
Piper Vaughn (The Luckiest (Lucky Moon, #2))
Il modo in cui si muovevano all’unisono era quasi irreale. Tutto quello che Red vedeva e sentiva era Terry. “Ti amo,” sussurrò, con le parole che sfuggivano perché non riusciva più a trattenerle. Al diavolo il suo cuore e la sicurezza. Era quello che provava, e se alla fine fosse rimasto ferito, allora pazienza. “Ti amo,” sussurrò di nuovo. Non era sicuro di quante volte lo avesse detto, ma quelle parole continuavano a risuonargli nella mente e nel petto. “Ti amo anch’io,” sentì attraverso il proprio mantra. Gli si allargò il cuore. Perse la cognizione di tutto a parte Terry mentre gemevano, mugolavano e si esploravano l’anima a vicenda… mentre facevano l’amore. I secondi e i minuti si fusero assieme, trascorrendo nei battiti delle palpebre di Terry e nel calore del suo respiro. Era un’esperienza nuova, avere il cuore che si impegnava assieme al corpo, ed era un’esperienza che Red sperava con tutte le forze di ripetere per molto tempo
Andrew Grey (Fire and Water (Carlisle Cops, #1))
Sei riuscito a rompere uno dei miei giocattoli.” Estrasse la sua spada. “È meglio morire che essere il giocattolo di qualcuno,” rispose Peter cinicamente. Tutta la sua rabbia s’era consumata nel momento stesso in cui aveva affondato il pugnale nel petto di Samuel ed era stata sostituita da qualcosa di più brutto, una specie di lutto all’idea ormai inevitabile che l’unico modo d’andare avanti sarebbe stato uccidere qualcun altro. Sapeva che intanto Ernest era steso, sanguinante, dietro di lui e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per salvargli la vita. “Potrei dire la stessa cosa del ragazzo che ho ucciso,” sibilò Uncino. “In fondo cos’era per te, se non una pedina?” “No, con lui era diverso.” “Davvero?” Uncino avanzò furtivamente, come una tigre che s’avvicina alla sua preda. Peter notò che il braccio, stanco e dolorante, tremava sotto il peso della sua spada. Le ferite di Peter, invece, quasi non gli facevano male; l’urgenza del momento e la polvere di fata avevano affilato il suo corpo in un oggetto pronto da usare. Uncino intanto continuava a parlare, probabilmente nel tentativo di distrarlo dalla lotta. “E dimmi, Pan, in che maniera era diverso?” “I Ragazzi Smarriti non sono miei,” rispose Peter. “E tu hai ucciso Soffietto mentre dormivo. Io, invece, ho ucciso il tuo uomo di fronte a te.” “Un gesto davvero nobile
Austin Chant (Peter Darling)
Da quanto tempo sono qui?” “Da molti anni,” rispose. “Se non fosse stato per lui, avrebbe potuto diventare un’eternità.” James si sentì stringere il cuore, anche se forse quel senso di costrizione era dovuto alla fatica. Sì, grazie a lui, certo non grazie a te. Dov’è Peter? Non intendo andarmene senza di lui.” La regina sembrava perplessa, anche se indovinare le emozioni di una libellula non era affatto facile. “E se lui dovesse decidere di restare?” “Non lo farà.” “La scelta è sua. Se resti ancora ad aspettarlo, rischierai di perdere di nuovo te stesso.” James tentò di fare una smorfia anche se il suo viso sembrava congelato. “Non fingere d’essere preoccupata,” sibilò. “Se avessi davvero voluto aiutarmi, avresti smesso di creare questa maledetta tempesta per farmelo ritrovare senza prima morire congelato.” La risata della regina era dissonante e fastidiosa e gli fece tremare i denti. “Oh, James,” disse, “Ma questa tempesta è la sua.” James spalancò la bocca e la richiuse in fretta. “Certo,” disse alla fine. “Avrei dovuto capirlo subito.” Si sentiva svuotato. Aveva davvero pensato che quella tempesta che stava cercando in ogni modo di tenerlo lontano da Peter fosse stata creata dall’isola, o dalle fate o da qualche altra forza magica e crudele. E invece era stato proprio Peter – Peter stava cercando di tenerlo lontano o forse stava soltanto sfogando la sua rabbia contro il mondo, senza pensare a cosa sarebbe potuto succedere a James. “Non ti sei mai accorto che ogni suo sorriso fa spuntare il sole?” Aggiunse la regina. “Era un altro dei desideri che aveva da bambino.” James rise a fatica. “E io invece non ho desiderato mai nient’altro che una ciurma di pirati.” “Le sue storie sono molto più ardite delle tue.” “Non posso lasciarlo qui.” “Quanto a lungo pensi di poter restare attaccato ai tuoi ricordi?” Chiese la regina. “Ti dimenticherai tutto. Come sempre, non riuscirai a resistere alla tentazione.” Gli atterrò sulle mani; di colpo erano diventate calde, il freddo dimenticato e i tagli lasciati dalle rocce della scogliera erano scomparsi. James si disse che sarebbe stato inutile, e probabilmente fatale, schiacciarla fra le mani. “Dovresti andare via subito,” gli disse, “Finché sei ancora in tempo.” L’idea di andare via senza Peter lo dilaniava, ma anche il pensiero di perdersi di nuovo gli era intollerabile. Avrebbe continuato a vagabondare alla ricerca di Peter fino a dimenticarne la ragione e senza mai riuscire a ritornare a quella vita che aveva quasi già perso
Austin Chant (Peter Darling)
Aveva l'espressione di un astronauta fluttuante nello spazio a cui si è sganciato il cavo e ha una sola possibilità di afferare una corda di salvataggio o di vagare per sempre nel nero infinito. Conoscevo quella sensazione, il panico che sembrava allungare il tempo, che trasformava i secondi in anni, e il dolore di essere feriti non da una persona, ma da molte, una banda di bulli che cresceva fino a includere il tuo quartiere e poi tutta la comunità, fino a spingerti a mettere in dubbio il mondo intero. E l'ultimo pensiero mentre allungavi il braccio fin quasi a sfiorare quella corda di salvataggio è in che modo, se fossi sopravvissuto, avresti potuto riparare quello che si era rotto, per poter dire che sì, volevi di nuovo essere parte di quel mondo.
Lissa Price (Starters (Starters, #1))
Il tramonto è uno spettacolo per tutti. Per un orfano tormentato dai dubbi assume un potere evocativo quasi doloroso. Mamma è la prima persona che mi viene in mente osservando l'orizzonte incendiarsi e gettare riflessi dorati sull'intera pianura. Mamma, così lontana, che non incontrerò mai. La seconda persona a cui penso è papà, che invece incontrerò nei prossimi giorni per riferirgli di questa nuova difficoltà. Poi la mente va a Marta e Irene, le immagino stese a letto con un libro sulle ginocchia. Chi vive nelle metropoli deve cercare il cielo nei ritagli prospettici non ipotecati dai grattacieli, non può capire la grandiosità di un orizzonte spalancato sulla giornata che finisce, il modo in cui questa bellezza ci impone di indagare chi siamo. E il silenzio. La qualità di questo silenzio: ha una consistenza quasi materiale, lo posso sentire come un tessuto sotto le dita.
Simone Marcuzzi (Ventiquattro secondi)
A mezza strada tra i miei due cari amici, finisco i miei bicchieri con in testa il ritornello di mio nonno, che per trent'anni aveva allenato la squadra di baseball della base americana: il vero talento, mi ripeteva scuotendo la testa come davanti a un'inevitabilità biblica, sta quasi sempre nelle mani degli ignari, degli incuranti, dei disgraziati, di coloro che sono pronti a svenderlo senza ricavarne nessun profitto, che se ne dimenticano come di una bicicletta con cui si è tanto corso in quell'ultima estate. Pochissimi sono capaci di costruire una carriera sul puro talento, diceva, di solito sono i mediamente dotati ad andare avanti, E determinati, quelli abituati al sacrificio e familiari con la delusione, gli ostinati e i pedanti. Gli ambiziosi, senza dubbio. Raramente un grande talento si accompagna a una grande ambizione. I benedetti dal talento arrivano molto in alto con troppa naturalezza, non imparano sotterfugi e colpi bassi, E poi si trovano impreparati: ci restano male appena subiscono un fallo o sono derubati di un'idea o li atterrano in modo sleale, finiscono per abbandonare il campo con quella grazia stupida che è la loro maledizione.
Federica Manzon (La nostalgia degli altri)
[...] non ho quasi mai accettato il nome delle cose e credo che sia evidente nei miei libri, non vedo perché dobbiamo tollerare invariabilmente ciò che ci arriva da fuori, e così alle persone che ho amato e amo ho messo di volta in volta nomi che nascevano a loro modo da un incontro, dal contatto di combinazioni segrete, e allora le donne sono diventate fiori, sono state uccelli, sono state animaletti del bosco, e ci sono stati amici con nomi che addirittura cambiavano dopo aver compiuto un certo ciclo, l'orso poteva diventare scimmia, come qualcuno dagli occhi chiari è stato una nube e poi una gazzella e una notte è diventato una mandragora [...]
Julio Cortázar (Correzione di bozze in Alta Provenza (littleSUR) (Italian Edition))
Ma io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un’opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente dell’immortalità, non basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare. Perciocché l’esperienza ti mostrerà che a proporzione che tu verrai conoscendo più intrinsecamente quelle virtù nelle quali consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna differenza sarà dal conoscerle, all’imparare e possedere il detto modo; anzi saranno l’una e l’altra una cosa sola. Di maniera che l’uomo non giunge a poter discernere e gustare compiutamente l’eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché quell’eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell’uso e dell’esercizio proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo, niuno per verità intende, che e quale sia propriamente il perfetto scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi.
Giacomo Leopardi (Operette Morali: Essays and Dialogues (Biblioteca Italiana) (Volume 3))
Avete notato che i più raffinati spargitori di sangue furono quasi sempre persone civilissime, rispetto alle quali tutti i vari Attila e Sten'ka Razin non valevano quanto le suole delle loro scarpe, e se non saltano agli occhi con la vivacità di Attila e di Sten'ka Razin, è appunto perchè s'incontrano troppo spesso, sono troppo comuni, non fanno più colpo? Per lo meno la civiltà ha reso l'uomo, se non più sanguinario, certamente sanguinario in modo peggiore, più infame di prima. Prima vedeva nello spargimento di sangue un atto di giustizia e con tranquilla coscienza sterminava chi occorreva; ora invece, sebbene consideriamo lo spargimento di sangue come un'infamia, tuttavia ci occupiamo di quest'infamia, e ancora più di prima. Che cosa è peggio? Giudicate voi.
Fyodor Dostoevsky (Notes from Underground)
Per fortuna non ero con Vincent. Oggi, al mercato di Bussum, rispecchiandomi in un bambino di tre o quattro anni, ho ritrovato uno spavento perduto. Negli occhi del bambino ho visto l'orrore quando la donna matura, dai fianchi poderosi, ha estratto dalla gabbia una gallina che se ne stava in un angolo, schiacciata contro il filo di ferro quasi a chiedere clemenza, chiocciando disperata. Io passavo dal bimbo atterrito alla donna che faceva tutto in modo freddo, impersonale, e stringeva con un colpo secco il collo della gallina che roteava nell'aria, mentre l'aria si riempiva di piume. Ho visto gli occhi del bambino sbarrarsi con il rantolo dell'animale, gli scatti di agonia sempre più lenti, i segni, nel corpo e nelle zampe, dello spasmo finale. Poi, l'odore del sangue sulla terra battuta. A quel punto il piccolo aveva già voltato la testa, e guardava da un'altra parte.
Camilo Sánchez (La viuda de los Van Gogh)
Ma da quando più di un anno prima, rivelandogli le tante ricchezze della sua anima, era nato in lui, almeno per qualche tempo, l'amore per la musica, Swann considerava i motivi musicali come idee vere e proprie, ma di un altro mondo, di un altro ordine, idee velate di tenebra, sconosciute, impenetrabili dall'intelletto, ma che non sono perciò meno perfettamente distinte le une dalle altre, non meno differenti fra loro in valore e significato. Quando, dopo la serata dai Verdurin, facendosi eseguire di nuovo la piccola frase, aveva cercato di distinguere come, al modo di un profumo, di una carezza, essa lo circuisse, lo avviluppasse, si era reso conto che quell'impressione di dolcezza ritrosa e da brivido era dovuta al debole scarto fra le cinque note che la componevano e al richiamo costante di due di esse; ma in realtà sapeva di ragionare così non sulla frase in se stessa, ma su semplici valori sostituiti, per comodità della sua intelligenza, all'entità misteriosa che egli aveva percepito, prima di conoscere i Verdurin, la sera che aveva udito la sonata per la prima volta. Sapeva che il ricordo stesso del pianoforte falsava ancor di più la prospettiva in cui vedeva i fenomeni musicali, che il campo aperto al musicista non è una meschina gamma di sette note, ma una tastiera incommensurabile, quasi del tutto sconosciuta ancora, dove, solo qui e là, disgiunti da spesse tenebre inesplorate, alcuni dei milioni di tasti di tenerezza, di passione, di coraggio, di serenità, che la compongono, ognuno diverso dagli altri come un universo da un altro universo, sono stati scoperti da alcuni grandi artisti, che svegliando in noi l'equivalente del tema che hanno trovato, ci rendono il servigio di mostrarci quanta ricchezza e varietà nasconda a nostra insaputa la grande notte impenetrata e scoraggiante della nostra anima, che noi scambiamo per un vuoto e un nulla.
Marcel Proust (Alla ricerca del tempo perduto)
Hai presente la sensazione che si prova quando si finisce un libro? Un bel libro intendo, di quelli che ti hanno accompagnato per tanto tempo, con personaggi che ti sono diventati familiari, storie e intrecci che padroneggi perfettamente, speranze ed emozioni che vivi insieme ai protagonisti di quelle pagine. Quando leggi l’ultima parola e chiudi per sempre il libro, per un attimo, ma solo per un attimo, sei euforico poi, subito dopo, vieni colto da una tristezza infinita. Ti avvolge una sensazione di smarrimento per avere perso tanti amici, rinchiusi per sempre nelle parole di un libro che prenderà polvere sullo scaffale di una libreria. In quel momento ci si sente soli e vuoti e solo un altro bel libro può aiutarti a superare quel momento. Ora io mi sento in quel modo, alle spalle tutto e davanti nulla. Ho bisogno di aprire un altro bel libro.
Paolo Pinna Parpaglia (Quasi colpevole)
Comunque sia lei deve avermi preparato una tazza di tè, prima di uscire per piazzare un avviso nei pressi dello stagno, che, tra parentesi, tutto è fuorché profondo. Dipendesse da me, non metterei un cartello vicino a uno stagno con su scritto STAGNO, ci scriverei qualcos'altro, tipo SBOBBA PER MAIALI, o lascerei perdere proprio. So qual è lo scopo, so che si vuole evitare che i bambini si avvicinino allo stagno correndo troppo e ci cadano dentro, eppure non sono granché d'accordo. Non è che io voglia vedere bambini ruzzolare nello stagno, malgrado davvero non capisca che male potrebbe fargli; è che non posso fare a meno di soppesare il problema dalla prospettiva di un bambino. E in tutta franchezza mi sentirei disgustata al punto di ordire una vendetta immediata se in un pomeriggio di settembre inoltrato venissi condotta in un luogo di presunta magia e mi fiondassi sullo stagno, quasi certamente sola, per scoprire la parola stagno scribacchiata in modo illeggibile su un misero e umidiccio pezzo di compensato lì accanto. Oh, mi infurierei. Quel genere di idiota invadenza si ripete con tale fastidiosa regolarità nel corso dell'infanzia ed è sempre fonte di estrema irritazione. Vedi si comincia con l'indagare, con lo sviluppare la capacità di notare davvero le cose e, a forza di tempo e con la pratica necessaria, si entra in sintonia con il logos radicato nella terra e si arriva a conoscere l'arricchente gioia di muoversi in accordo diretto e profondo con le cose. Eppure questo processo vitale viene bruscamente intralciato dall'immancabile e stupido dispiego di nomi letterali e avvisi insensati, tanto che l'intero terreno ne risulta oscurato e inaccessibile finché tutto non diventa temibile. Manco la terra fosse un'immensa ed elaborata trappola mortale.
Claire-Louise Bennett (Pond)
La Breve storia dell’anima che proponiamo non è una summa sistematica e completa del tema, non è neppure un saggio accademico destinato agli addetti ai lavori, non è un testo di approfondimento teorico, desideroso di inoltrarsi su vie inesplorate. Il metodo adottato è quello suggerito da Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane. È la tecnica dello scultore che non aggiunge ma toglie, scalpellando senza sosta l’enorme blocco di marmo per far emergere un volto o un torso. Abbiamo pensato di adottare come schema simbolico per questa ricerca nell’orizzonte dell’anima quello della navigazione. Varie sono le tappe del viaggio. Prima però di imbarcarsi, è necessario un itinerario di avvicinamento al fiume transitando nelle culture primitive, nelle antiche e gloriose civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India e dell’Arabia, visitando anche luoghi reconditi, quasi simili a grotte oscure, come nel caso della metempsicosi, dello spiritismo, della metapsichica. Il grande fiume dell’anima che dobbiamo navigare, circondato da queste terre, rivela due sorgenti specifiche che lo hanno alimentato in modo copioso. Da un lato, c’è la «Sorgente sacra» delle Scritture bibliche con il loro originale e variegato messaggio che ha alcuni apici nel libro della Genesi e nelle parole di Cristo e di san Paolo. D’altro lato, ecco l’«Altra sorgente», quella della cultura greca, ove appaiono i miti affascinanti di Psiche e di Orfeo, ma anche si stagliano pensatori eccelsi come Platone, Aristotele e Plotino. Dalle sorgenti la navigazione s’inoltra poi nel corso tortuoso del fiume: si devono percorrere secoli e secoli di storia. Tre sono i profili dell’anima che entrano in scena. C’è anzitutto quello disegnato dalla teologia cristiana nel suo incessante interrogarsi, nelle risposte del Magistero ecclesiale ufficiale, nell’elaborazione intensa dei suoi pensatori e anche nel suo sforzo ardito di affacciarsi sull’oltrevita dell’anima, al di là del confine della morte. C’è, poi, la complessa riflessione della filosofia occidentale, a partire da Cartesio, dal cui dualismo si diramano sia i grandi «spiritualisti» come Spinoza e Hegel, sia l’aspra reazione dei «materialisti», negatori convinti dell'anima. È il capitolo dell’«Anima filosofica» che si apre anche a teorie innovative, come quelle dell’evoluzionismo e della psicologia/psicoanalisi. Infine c’è il profilo dell’«Anima poetica»: è uno sguardo gettato sul mistero dello spirito dall’intuizione letteraria. Si va, allora, dalle scene create dal genio di Dante al terribile patto tra Faust e Mefistofele descritto da Goethe, dai dialoghi tra anima-corpo-natura immaginati da Leopardi, Rosenzweig o Péguy fino alle sorprendenti proposte di Pirandello e di tanti altri autori. Si giunge così a una tappa conclusiva: si penetra nell’odierno inquietante ma anche affascinante laboratorio delle neuroscienze per incontrare quell’«uomo neuronale» che alcuni vorrebbero spogliato dell’anima e ridotto a cervello. Quando si sarà conclusa la navigazione lungo il fiume della storia dell’anima, si avrà forse un’impressione antitetica rispetto alla voce dell’indigeno amazzone: l’anima è ben più veloce e vivace della civiltà moderna. È ciò che affermava nel V secolo uno scrittore spirituale, Giovanni Cassiano: «Stiamo sicuramente andando indietro quando ci accorgiamo di non essere andati avanti: l’anima non può rimanere ferma».
Gianfranco Ravasi
Avete notato che i sanguinari più raffinati erano quasi sempre dei signori più che civili, di cui certe volte tutti i vari Attila e Sten’ka Razin non valevano le suole delle scarpe; e se non balzano agli occhi violentemente come Attila e Sten’ka Razin, è proprio perché s’incontrano troppo spesso, sono troppo comuni, perfino scontati. O almeno, per effetto della civiltà l’uomo è diventato, se non più sanguinario, certamente sanguinario in modo peggiore, più abietto di prima.
Fyodor Dostoevsky (Notes from Underground, White Nights, The Dream of a Ridiculous Man, and Selections from The House of the Dead)
La prima volta che aveva avuto il ciclo, all’età di dodici anni, la madre le aveva detto che il senso di quel sangue era “la sicurezza dei figli”. Nella non aveva mai pensato ci fosse molto di cui sentirsi sicuri a giudicare dalle urla, nel villaggio, delle donne in travaglio, a volte seguite da un corteo dietro a una bara. L’amore era molto più nebuloso di qualche macchia su uno straccio di lino. Il ciclo non le era mai parso legato a ciò che lei sospettava significasse la parola amore, che aveva a che fare sì col corpo, ma andava anche oltre. “È amore, Petronella,” aveva detto la signora Oortman osservando il modo in cui Arabella stringeva a sé Occhionero ancora cucciolo, fino quasi a togliergli la vita. Quando cantavano l’amore nel villaggio, i musicisti parlavano in effetti del dolore che la ricompensa nascondeva. Il vero amore era un fiore nella pancia, con i petali che uscivano fuori. Per amore si rischiava tutto: era uno stato di beatitudine mai privo di perle di sgomento. La signora Oortman si era sempre lamentata che non c’erano pretendenti abbastanza buoni nel giro di miglia e miglia, “mangiafieno” definiva i ragazzi del circondario. La città, e Johannes Brandt, racchiudevano il futuro di sua figlia. “Ma l’amore, madre. Lo amerò?” “La ragazza vuole l’amore,” aveva gridato in modo teatrale la signora Oortman alle pareti scrostate di Assendelft. “Vuole le pesche e anche la panna!
Jessie Burton
«Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.» ... «Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»
Carlos Ruiz Zafón (The Shadow of the Wind (The Cemetery of Forgotten Books, #1))
Sono incappato in una fotografia di Matteo Renzi che giocava a pallone sotto il sole con i suoi figli a torso nudo. Purtroppo per lui, in una società dove molto si basa sull’immagine, dove chi è bello e curato ha più possibilità di emergere nel lavoro e nelle piccole cose di tutti i giorni, quella pancia così prorompente, così abbondante, si scontra con la sua ricerca strategicamente quasi perfetta del potere assoluto. La camicia con le maniche tirate su e la cravatta, ma senza giacca, la campagna condotta con uno slogan all’americana in stile Obama, il modo di parlare e gesticolare, la scelta del look a seconda delle occasioni (indimenticabile quello proposto ad «Amici», dove si è presentato con il «chiodo»): tutto per lui è comunicazione, per colpire, per piacere, per vincere. Ma niente può comunicare come il corpo.
Fabrizio Corona (Mea Culpa: Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me (Italian Edition))
«Degnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore, di accendere le nostre lucerne: brillino continuamente nel tuo tempio e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna; siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito e fuggano da noi le tenebre del mondo. Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna, perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi, che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne. Fa’ che io guardi, contempli e desideri solo te; solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio. Nella visione dell’amore il mio desiderio si spenga in te e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli ed arda. Degnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo, perché, conoscendoti, amiamo solo te, te solo desideriamo, a te solo pensiamo continuamente, e meditiamo giorno e notte le tue parole. Degnati di infonderci un amore così grande, quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso, perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere inferiore e ci faccia completamente tuoi. In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all’infuori di te, che sei eterno, e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo, di questa terra e di questo mare, come sta scritto: "Le grandi acque non possono spegnere l’amore" (Ct 8, 7). Possa, questo, avverarsi per tua grazia, anche per noi, o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen» (san Colombano, Istruzioni, 12, 3).
Luigi Giussani (Dal temperamento un metodo - Quasi Tischreden - Volume 6 (Italian Edition))
Scosto lo sgabello e mi alzo, senza mai perdere il contatto visivo, per paura che se abbassassi solo per un attimo gli occhi tutto svanirebbe e non sentirei più il mio cuore martellare nel petto. Scendo i gradini del palco e mi fermo; attendo, un suo cenno, un suo movimento. Nulla. Esito alcuni secondi. Non smettere di guardarmi, ti prego. E lui non lo fa.
 Scioglie le braccia che gli ricadono lungo i fianchi, si muove verso di me facendosi largo tra la folla, senza perdermi di vista neanche per un istante.
 Mi muovo anch'io, con qualche difficoltà ad allontanare i ragazzi che vorrebbero complimentarsi con me per il pezzo. 
Non sento nulla, non c'è nessun altro in questo locale.
 Ci siamo solo lui ed io. 
C'incontriamo a metà strada, fermandoci a un passo. Sostengo il suo sguardo vivo, sognante, languido. Si avvicina e con timore mi prende la mano. Lo lascio fare, persa nei suoi occhi e in ciò che racchiudono. Mi attira a sé, la sua fronte sfiora la mia, il mio respiro diventa il suo respiro. Mi accarezza il viso e mi abbandono a quel tocco, chiudendo gli occhi nel momento in cui le sue labbra si sposano con le mie. Mi passa le mani fra i capelli e mi attira di più a sé, in modo che il calore del suo corpo incendi la mia pelle. 
Poi si allontana, appena; apro gli occhi e incontro le sue lacrime, stavolta non di sofferenza.
'Mi sono innamorato' dice. Ed è un soffio, un sospiro, quasi un gemito.
A.S. Kelly (Tre minuti di me (Tre minuti di me, #1))
Divorzio e referendum sul divorzio. La norma religiosa nello spazio pubblico Il secondo punto che avrei voluto discutere con Giussani riguarda un episodio raccontato nel libro, che merita a mio avviso una riflessione più profonda, più dettagliata, perché ha un significato più che storico. Riguarda, infatti, la posizione della religione nello spazio pubblico, allora e oggi. Si tratta del coinvolgimento di CL nel referendum Fanfani del 1974, che cercava di abrogare la legge che permetteva il divorzio. CL, guidata da Giussani, sosteneva il «Sì» seguendo fedelmente le indicazioni della CEI. C’era qualche voce dentro il movimento (vedi a pagina 458) che consigliava diversamente, e non per ragioni di principio ma di opportunità politica. Come sappiamo, la proposta abrogativa fu sconfitta clamorosamente. All’indomani del voto Giussani ha reagito in modo assai militante, quasi amaro. Ma in dieci anni il suo pensiero è diventato più sottile. Cito da pagina 459: il referendum «portò alla ribalta una situazione fino ad allora non da tutti chiaramente percepita; e soprattutto poco percepita all’interno della Chiesa istituzionale, dove spesso si continuava malgrado tutto a credere che l’Italia fosse un paese ancora incontestabilmente e largamente cattolico. […] Valutando la questione a posteriori penso di poter concludere che una presa di coscienza della situazione così chiara ed inequivocabile, anche se brutale, fu meglio per la Chiesa di quel che altrimenti sarebbe potuto accadere: che cioè il declino della presenza cattolica nella società italiana continuasse in modo strisciante, ed inavvertito da molta parte della Chiesa istituzionale». Se avessi avuto la possibilità di discutere con Giussani, gli avrei domandato: «Secondo lei, se la situazione sociale in Italia fosse stata diversa, cioè se il Paese fosse stato ancora incontestabilmente e largamente cattolico, sarebbe stata una giustificazione per votare “SÌ” all’abrogazione?». A mio umile avviso, anche in queste condizioni sarebbe stato un errore votare «SÌ», perché in questo modo si nega la volontà di Dio e, se ho capito bene, anche l’insegnamento del Concilio Vaticano II sul rapporto fra la religione e il potere coercitivo dello Stato. Come ha spiegato con chiarezza e coraggio Benedetto XVI davanti al Bundestag, esistono norme religiose che, pur essendo religiose, sono spiegabili nei termini della semplice ragione di cui Dio ha dotato tutti gli esseri umani. Il monito: «Non uccidere» si trova nei Dieci Comandamenti, parole rivelate direttamente di Dio. Ma anche senza questa rivelazione sarebbe giustificabile davanti ai credenti e ai non credenti. La sua coincidenza con la rivelazione può aggiungere un’ulteriore motivazione per il credente, per il quale uccidere non sarà solo un reato contro la legge e contro le norme morali e l’etica generale, ma anche un peccato davanti a Dio. E il credente, senza alcuna esitazione, può mobilitarsi perché diventi legge generale applicata e tutelata dallo Stato con tutto il suo potere coercitivo. Ma l’indissolubilità del matrimonio cattolico è una questione diversa. È, infatti, espressione del concetto di matrimonio «sacramentale» (la parola non ha alcun significato nel vocabolario dello Stato non confessionale), che distingue lo sposo cattolico non soltanto dai suoi concittadini non credenti, ma anche dai credenti di altre religioni (come Protestanti, Ebrei e Musulmani che, pur avendo il matrimonio sacramentale, prevedono la possibilità del divorzio). C’è un elemento molto particolare nel matrimonio cattolico (che secondo tanti è un elemento molto nobile), perché esso è concepito come un’unione che coinvolge tre parti, i due sposi e Dio, che assegna a tale unione un valore addirittura sacramentale, che assegna una certa santità (un’altra parola che non esiste nel vocabolario dello Stato non confessionale) al matrimonio e che ne spiega e giustifica l’indissolubilità in termini religiosi. Il matrimonio civile, però, è del tutto diverso. Per la mia
Alberto Savorana (Un'attrattiva che muove: La proposta inesauribile della vita di don Giussani)
XLVI Devido à guerra prolongada, Ao agravamento dos impostos, Enorme migração foi notada, Pr´o Brasil iam quasi todos…! O Conde de Ericeira, do nada… Vai renovar o País, a seus modos, De Duarte Ribeiro de Macedo Usa as ideias qual rochedo!
José Braz Pereira da Cruz (Esta é a Ditosa Pátria Minha Amada)
Vorrei che tu potessi ricordare come ci si sente quando si è donna, e come ci si sente quando non si è né uomo né donna. Solo "essere", prima di tutto, prima delle definizioni, dei pronomi personali, delle parole e dei generi. Forse, in questo modo, potresti anche arrivare, quasi per caso, alla possibilità primordiale di essere me,
David Grossman
Chi ha un'autentica vocazione all'Eros, ne scrive comunque, in ogni modo: un diario regolare, spesso nascosto, o appunti in cifra, quasi un codice segreto e personale, note tracciate magari sull'agenda, confuse con le cose da fare durante il giorno. Succede quando l'Eros ha un significato che si fonde con le abitudini, il modo un cui si vive.
Alberto Bevilacqua
21 Aprile 2015 Sono così confuso, non capisco che direzione stia prendendo la mia vita. I miei coetanei sembrano così felici, assorti nei loro pensieri, nelle loro cose, nella futilità. Mi chiedo come facciano ad essere così spensierati mentre il mondo qui fuori è pieno di iniquità, di follie. Tutto ciò mi rende continuamente infelice, ogni singolo giorno torno a casa, mi stendo sul letto e scendono le lacrime. L'umanità è un crimine contro l'umanità. Questo mondo è diventato un inferno. Io ho paura di vivere qui. Vorrei prendere tra le redini questa situazione e cambiare qualcosa, dare qualcosa di significativo a oquesto mondo. Ma cosa? Ho bisogno di tanta forza, tutta quella che mi manca. Coraggio. Dove si trovano queste virtù che non mi sono familiari? Sono una nullità. Ho fallito. Non sono nessuno. È un urlo che si propaga dentro di me ed è sordo agli altri. Potrei essere una persona migliore. Vorrei. Potrei. Come si fa? Mi giro e in ogni angolo c'è un punto interrogativo gigantesco, lo specchio di quello che grava sulla mia testa. Frequento l'università, come tanti altri. Seguo i corsi attentamente, poi mi fermo e mi domando: a cosa serve? Ci sono così tante cose da fare nella vita, cose importanti. Difendere gli ideali, proclamare la libertà, sconfiggere il male. E noi siamo qui: fermi, inerti, disinteressati, senza voglia alcuna, scarsa partecipazione, complici di questo mondo (io in primis). Forse avrò sbagliato strada, ma non mi importa, l'ho fatto per difendere il mio ideale, a modo mio. Porbabilmente andrò all'inferno, come voi volevate. Beh, vi ho accontentati. Mi è stata risucchiata la gioia dall'intimo del mio essere, non mi è rimasto (quasi) nulla, ma continuo a lottare, a scrivere, ad esprimermi in ogni forma, con ogni mezzo. In questi ultimi anni ho sofferto particolarmente, il dolore è diventato mio amico, è sempre accanto a me. Non l'ho deciso io, è lui che cerca me. A questo punto posso dire che, nonostante la mia parvenza da ventenne, ho sviluppato lo spirito di un ottantenne. Lo percepisco costantemente, mi sussurra parole indecifrabili, mi spinge ad ascoltarlo. Sento che c'è, ma è così in profondità, lontano e nascosto. Accumulare esperienza, ma non farne tesoro; formulare ipotesi, ma essere incapaci di agire; è lo scenario di una tragedia greca, un conflitto interiore. Nessuna soluzione. Non esiste. Non arriverà mai. Angoscia. Dubbio. Desolazione. Turbamento. Potenzialmente potrei brillare, illuminare questo mondo, ma non ne sono capace. Manca lo stimolo, la spinta, il carburante. Dove si va?
Nicola Parretta
In certi libri ci sono passi in grado di penetrarci così a fondo che non possiamo più scordarli, non tanto per la bravura dell'autore quanto perché "la vicenda pare scorrere per conto suo", quasi "si fosse scritta da sé". Simili passi ci rimangono nella mente, o nel cuore - o comunque tu voglia chiamarlo - non tanto come portentose creazioni di un mastro artigiano quanto come momenti teneri, strazianti e dolorosi, che ricorderemo per anni e addirittura oltre alla stregua dei periodi d'inferno (o paradiso) che viviamo realmente. Quindi, vedi, se fossi un eccellente maestro della parola invece che l'ultimo arrivato tra i rubricisti, sarei sicuro che questa è una delle pagine della mia opera intitolata Rüya e Galip che potrebbero rimanere in mente per anni ai miei sensibili e intelligenti lettori. Ma è un tipo di certezza di cui non dispongo. È per questo che su questa pagina, caro lettore, vorrei lasciarti solo con i tuoi ricordi. E il modo migliore per farlo sarebbe suggerire al tipografo di coprire del tutto le pagine successive con un inchiostro nero. In modo che potessi essere tu a usare la tua fantasia allo scopo di creare ciò a cui io non so rendere giustizia con la mia prosa. E, per descrivere il nero del sogno in cui mi sono trovato sprofondato nel punto in cui ho interrotto la mia storia, ricordati il silenzio da cui è stata inondata la mia mente nel corso delle successive vicende, che ho vissuto come fossi sonnambulo. Considera dunque le pagine che seguono, le pagine nere, alla stregua dei ricordi di un sonnambulo.
Orhan Pamuk (The Black Book)
Scivolo a terra e mi siedo, faccio vagare lo sguardo per la stanza buia cercando in ogni modo di concentrarmi e pensare, ma ho la testa piena di bolle di sapone che si gonfiano ed esplodono ripetutamente. A pochi centimetri di distanza, oltre il legno compatto che ci separa, lo sento respirare profondamente. Mi sembra quasi di poter avvertire il brivido tiepido del suo fiato sulla pelle. Abbasso le palpebre e immagino che si sia inginocchiato e si trovi proprio alla giusta altezza per appoggiare le mani in corrispondenza delle mie spalle, seppur dall’altra parte della soglia. Fingo di avvertirne il contatto, m’illudo che il suo calore possa attraversare la porta e riesca ad arrivare a toccarmi. «Kiki, io ti amo da morire.» Mi rannicchio circondandomi con le braccia e appoggio la testa all’angolo tra le due pareti. Vorrei strapparmi le orecchie per non udire un’altra parola, vorrei colpirlo fino a farlo sanguinare, vorrei smettere di essere razionale e fregarmene di tutto, semplicemente tornare da lui.
Giulia Anna Gallo (Il mio ricordo di te)
Prendo il suo viso tra le mani e lo bacio. Lo sento sorridere sulla mia bocca mentre i miei denti gli mordono il labbro inferiore. Il mio cuore batte così forte che posso sentirne il suono. Nick poggia la mano all'altezza del mio cuore. «Batte veloce quasi quanto il mio.» «Ci verrà un infarto.» «Se dobbiamo morire, moriamo nel modo migliore.» «E quale sarebbe il modo migliore per morire?» «Facendo l'amore con te.»
Antonella Pellegrino (Per una scommessa)
Il primo paradosso del tempo è inerente alla consapevolezza che ognuno ha di vivere in un tempo che precedeva la sua nascita e che continuerà dopo la sua morte. Questa consapevolezza individuale del finito e dell’infinito vale simultaneamente per il singolo e per la società. Infatti l’individuo che si trasforma, cresce e poi invecchia, prima di scomparire un giorno o l’altro, assiste in quel mentre alla nascita e alla crescita degli uni e all’invecchiamento e alla morte degli altri. Invecchia in un mondo che cambia, se non altro perché gli individui che ne fanno parte invecchiano anche loro e vedono generazioni più giovani prendere progressivamente il loro posto. Ci sono spiegazioni di tipo intellettuale per questo primo paradosso: sono tutte le teorie che, in un modo o nell’altro, inscenano il ritorno del medesimo. Nella maggioranza delle società studiate dall’etnologia tradizionale esistono rappresentazioni dell’eredità molto elaborate che tendono a ritenere la morte degli individui non una fine in sé quanto l’occasione per ridistribuire e riciclare gli elementi che li compongono. Le teorie della metempsicosi sono solo un tipo particolare di tali rappresentazioni. In Africa, per esempio, l’idea del ritorno degli elementi liberati dalla morte non è associata a quella del ritorno degli individui in quanto tali, anche se, nelle grandi chefferies o nei regni, la logica dinastica spinge in quella direzione. Altre istituzioni, come le classi di età, o taluni fenomeni religiosi ritualizzati, come la possessione, rientrano in quella visione immanente del mondo che tende a relativizzare l’opposizione tra vita e morte in virtù di un’intuizione non lontana dal principio scientifico secondo il quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Il secondo paradosso del tempo è quasi l’inverso del primo e riguarda la difficoltà per uomini mortali, e quindi tributari del tempo e delle idee di inizio e fine, di pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine. Le cosmogonie e le apocalissi, in varie modalità, sono una soluzione immaginaria per rispondere a questa difficoltà. Il terzo paradosso del tempo rimanda al suo contenuto o, se vogliamo, alla storia. È il paradosso dell’evento, del fatto sempre atteso e sempre temuto. Per un verso sono gli eventi che rendono sensibile il passaggio del tempo e che servono anche a datarlo, a ordinarlo secondo una prospettiva diversa dal semplice ripresentarsi delle stagioni. Ma per un altro verso l’evento comporta il rischio di una rottura, di una lacerazione irreversibile con il passato, di un’intrusione irrimediabile del nuovo nelle sue forme più pericolose. Per un lungo periodo della storia umana le catastrofi ecologiche, meteorologiche, epidemiologiche, politiche o militari avevano il potere di minacciare l’esistenza stessa del gruppo, e lo sviluppo delle società non ha fatto svanire la consapevolezza di rischi del genere: li ha solo collocati su una scala diversa. Il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è sempre stato al centro delle attenzioni dei gruppi umani. Lo è ancora oggi; cambiano solo le parole e le soluzioni. È anzi possibile che il paradosso dell’evento sia al suo culmine: mentre la storia accelera sotto la spinta di eventi di ogni genere, noi pretendiamo di negarne l’esistenza, come nelle epoche più arcaiche, per esempio celebrandone la fine.
Marc Augé (Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo)
Il sole tramontava in un oceano di luce, le cui tinte a poco a poco variavano certo a causa dello stato più o meno igrometrico dell'atmosfera e della distanza dell'astro dallo zenith. Mentre stava, per modo di dire, per affondare nell'oceano, pel cielo si diffondeva una luce rosso-giallognola la quale prendeva rapidamente una tinta quasi violacea che si perdeva insensibilmente in un fondo azzurro-grigiastro. Il margine superiore del disco stava per sparire, quando apparve improvvisamente un raggio assolutamente verde, d'una bellezza tale da strappare all'americano ed a Darma un grido d'ammirazione. Si proiettò per qualche istante sulle acque, poi scomparve di colpo, mentre l'ultimo lembo dell'astro diurno si celava dietro l'orizzonte.
Emilio Salgari (Il Re del Mare)
Il cavallo: da che siamo giunti a questa casa, il cavallo si è appartato; non saprei come altrimenti descrivere il suo contegno; esco dalla casa, e lo scorgo, lontano forse un centinaio di metri, immobile, il volto, così debbo chiamarlo, verso la casa, ma del tutto indifferente. Non è lontano, ma lo spazio che mi divide da lui è palude irrimediabile, e chiaramente mi vien detto non so da chi, che non debbo raggiungere quel cavallo. Posso solo guardarlo, e chiedermi che mai sia. Ora so per certo che non ha nulla a che fare con i cavalli terrestri, e in qualche modo lo so coinvolto nella qualità della palude; ma appunto questa qualità mi è ignota. Né so, e questo forse è essenziale, che cosa sia questo cavallo in assenza di me, e anzi se io ed egli non formiamo non già una coppia, ma un individuo binario, fatalmente congiunto e non solo giustapposto. Giacché ho ben detto, io, che senza il cavallo non sarei mai giunto alla casa nella palude, e ciò è vero; ma non so se senza di me a questo cavallo sarebbe stato mai permesso di affrontare, e con tanta esattezza di piede, gli itinerari della mortale palude; se sono certo che il cavallo è il mio destino, non è impossibile che io stesso appartenga al destino del cavallo. Cavallo, cavallo; che strano nome per questo essere prodigioso, nel breve percorso prima di raggiungere la palude, ho provato a chiamarlo corsiero, e con quei nomi che usano, come Morello, o Baiardo. Ora rido a pensarci. A quei nomi non rispondeva, ma ora capisco che non v’è, non vi può essere nome cui risponda; e se ho tentato di non dirlo cavallo, ma corsiero, questo veniva dal mio desiderio di riconoscergli una qualità d’invenzione, quasi fosse uno dei tanti cavalli per eroi e dèi che frequentano i poeti mitici, a me una volta diletti. I “corsieri” non esistono nel senso quotidiano e terrestre, e dunque bene accadeva chiamare costui un corsiero; ma poi tutto questo si è disfatto come un gioco letterario, ed ora mi trovo a misurarmi con una metà della mia formula binaria, e tener testa a qualcosa di oscuro ma di essenziale alla definizione di questo luogo, non meno ignoto e certo dei miei predecessori, che forse il cavallo ha conosciuto, che forse lo hanno cavalcato attraverso la laguna, per gli stessi itinerari sull’orlo della morte. Ho detto: il cavaliere dell’apocalisse, ma il cavaliere aveva un cavallo, e se io sono per questa terra viva di animali, l’angelo della morte, quel cavallo non può avere minor dignità, né io di lui; siamo entrambi dèi letali? Frugo fra i miei ricordi scolastici e mi chiedo se io in verità non abbia a che fare con un cavallo, ma con la cavallinità. Ora, la cavallinità non può chiamarsi “Morello” né può essere corsiero, ma anche non mangerà nñe defecherà, né copulerà; e forse non è impossibile avere un qualche rapporto meditativo con la cavallinità, e forse anche a quella rivolgere la parola, anche se dubito che la cavallinità sia incline a rispondere. Ma l’idea che io non sia venuto a cavallo ma sul dorso della cavallinità – che spiegherebbe il suo innaturale silenzio – mi affascina; o forse è un gioco per resistere alla palude?
Giorgio Manganelli (La palude definitiva)
Senza maschi Il cristianesimo cattolico, per quanto nella dottrina sia saldamente in mano ai maschi, nella prassi parrocchiale ha attratto soprattutto donne e bambini, il che dice già tanto del fatto che il suo messaggio presenti forse più contraddizioni con un certo modo di pensare la maschilità che non con il femminismo. Perché un culto riconosciuto come strutturalmente maschilista attira cosí poco i maschi? Perché secondo una certa idea di virilità l'uomo deve vivere la fede con pudore e riserbo, quasi vergognandosene. La maschilità tossica non ammette che manifesti in maniera troppo aperta gesti ispirati alla misericordia, alla dolcezza d'animo, alla cura e alla volontà di perdono, considerate mollezze di cuore delle femmine. Il cristianesimo, col suo Gesú morto inchiodato alla croce o il cuore esposto grondante sangue, non è una religione per maschi alfa.
Michela Murgia (God Save the Queer: Catechismo femminista)
Mi godo il calore ruvido del suo palmo. Ci rendiamo conto nello stesso istante che sta accarezzando con il pollice la pelle sensibile tra il mio mento e la mia bocca. Sono certa che si tratta di un automatismo. Il nostro corpo ricorda cose che dovremmo dimenticare. Mi aspetto che si tiri indietro, ma il modo in cui mi osserva nella penombra della notte poco illuminata, il modo in cui trascina le sue dita sulla mia mascella, quando ritira il braccio quasi con riluttanza, mi toglie il fiato.
Kennedy Ryan (Before I Let Go (Skyland, #1))
- Sai cos'è la base di tutto? Della vita, dell'amore, della continuazione della specie, del sesso e persino della morte? La paura. Quando nasciamo la prima sensazione che proviamo è la paura. Forse, persino quando siamo ancora nella pancia delle nostre madri, proviamo paura. Quando amiamo una persona, lo facciamo solo perché abbiamo paura di rimanere soli. È normale avere paura. L'uomo è un animale. Pensa ai nostri progenitori. Immaginali in una foresta, immaginali senza attrezzi, senza negozi, ospedali, scuole, caserme, senza la società. Se non avessero avuto almeno la paura sarebbero morti tutti subito e invece i più vili sopravvivevano. Chi era troppo temerario periva presto, sbranato da bestie ferocissime, ucciso dai propri simili, fatto fuori da catastrofi immani. La paura è la molla di tutto, pure del sesso. Cos'è il sesso se non la paura di non riuscire a garantire un futuro alla specie? Non c'è niente di piacevole, dolce, passionale o di bello nel sesso. È solo paura. La paura è un fattore ancestrale. È la molla della vita. Solo chi la domina detiene il potere. È per questo che dobbiamo mettere in piedi una fabbrica della paura, dobbiamo edificare una società fondata sulla paura per il bene del vivere sociale, contro l'anarchia e i disvalori oggi imperanti. È un compito importante il nostro, delicatissimo, direi fondamentale per le sorti dell'umanità. [...]Ma come si fa a costruire una società fondata sulla paura?[...] Questo è l'aspetto più semplice invece, quasi una burla da ragazzini, un meccanismo infantile. La paura deriva dal senso di spiazzamento. Se tu sei abituato in un certo modo, possiedi una sicurezza acquisita dalle abitudini. Basta spezzare quest'equilibrio e i modi per farlo sono tanti. Generando la paura nella gente, immetti adrenalina nei loro corpi, quello che prima era ordinario, quello che era routine non è più sotto controllo e così impedisci alle teste di pensare, le persone normali impazziscono. A quel punto interveniamo noi che la paura la sappiamo gestire, oltre che creare. Interveniamo noi e facciamo ordine nella società, rimettiamo tutto al proprio posto. Pag: 137-138
Davide Pappalardo (Milano Pastis)
A questo punto Fugui mi guardò con una risatina: quello che quarant'anni prima era stato un libertino sedeva a petto nudo sull'erba fresca, il sole che squarciava a fiotti di luce le foglie degli alberi illuminava i suoi occhi stretti a fessura. Le sue gambe erano incrostate di fango, sulla sua testa completamente rasata sbucavano radi e sparsi alcuni capelli bianchi; sul petto la pelle s'increspava in tante grinze, lungo le quali scivolava colando il sudore. In quel momento il vecchio bufalo era accucciato nell'acqua giallastra dello stagno, affioravano soltanto la testa e la lunga colonna vertebrale: l'acqua dello stagno sciabordava su quella schiena bruna come le onde che s'infrangono sulla riva. Incontrai questo vecchio agli inizi della mia vita girovaga, ero un giovane spensierato allora, ogni faccia nuova mi riempiva di entusiasmo, m'attirava profondamente tutto ciò che m'era sconosciuto. Fu proprio in un momento simile che incontrai Fugui: sapeva raccontarsi in modo colorito e vivace, nessuno mi ha mai aperto il suo cuore come lui, era disposto a rivelare qualsiasi cosa volessi conoscere. L'incontro con Fugui mi riempì di liete aspettative per la mia vita alla ricerca di ballate, pensavo che quella terra fertile e lussureggiante fosse popolata da un'infinità di persone come lui. In seguito ho effettivamente incontrato molti vecchi simili a Fugui, portavano come lui delle braghe con il cavallo che ricadeva a penzoloni quasi fino alle ginocchia. Le rughe sul loro viso erano coperte di terra e sole e quando mi sorridevano potevo vedere che nel vuoto della loro bocca non restava che qualche dente. Spesso versavano lacrime torbide, ma non perché fossero tristi: piangevano anche quand'erano allegri e persino nei momenti di assoluta calma e senza alcun motivo, poi alzavano le loro dita scabre come strade di campagna a sfregarsi via le lacrime come ci si pulisce di dosso qualche filo di paglia.
Yu Hua (To Live)
Vi ha mandato il locandiere?” Chiese, quasi sorpreso dalla fermezza della sua voce. Lo sconosciuto sorrise nuovamente in modo misterioso, inclinando la testa da un lato. “Non proprio. Ma spero che la mia visita sia comunque di vostro gradimento. O samurai-dono trova la mia presenza importuna?” Si sporse in avanti e la stoffa della sua manica sfiorò le dita di Hajime, poggiate sul tavolo. “Certo che no,” replicò all’istante Hajime. Il profumo del ragazzo lo avvolgeva, dolce e inebriante, facendogli ribollire il sangue. Delle immagini gli fluttuavano nella testa, riscaldandogli il corpo come una lenta tortura: il ragazzo, con lo yukata in disordine; le sue lunghe gambe esposte al tocco di Hajime; la sua pallida gola tesa mentre gettava la testa all’indietro, ansimando e gemendo sotto le mani di Hajime... Hajime non si rese conto di essere balzato in piedi finché non ebbe fatto tre passi indietro, incespicando sul tatami, con il cuore che batteva all’impazzata.
Cornelia Grey (The Ronin and The Fox)
Il fatto è che le sostanze pschideliche - non importa se per loro stessa natura o per il modo in cui la prima generazione di ricercatori aveva costruito l'esperienza - introdussero in Occidente qualcosa di profondamente sovversivo, che i vari establishments non poterono fare altro che respingere. L'LSD era davvero un acido che scioglieva quasi tutto quello con cui entrava in contatto: dalle gerarchie della mente (il superego, l'ego e l'inconscio) alle varie strutture di autorità sociale, e a ogni genere di confine immaginabile: tra paziente e terapeuta, tra ricerca e uso ricreazionale, tra malattia e salute, tra il sé e l'altro, tra soggetto e oggetto, tra spirituale e materiale. Se nella civiltà occidentale tutti questi confini sono manifestazioni dell'apollineo - dell'impulso che erige distinzioni, dualità e gerarchie, e poi le difende -, allora le sostanze psichedeliche rappresentano l'ingovernabile forza dionisiaca che, spensierata, cancella tutte quelle demarcazioni.
Michael Pollan (How to Change Your Mind: The New Science of Psychedelics)
-Senza alcuno scopo immediato e concreto Questa ultima parte della mia "personalissima" definizione per me è la più importante: studiare deve essere un gesto a sé stante, sganciato da ogni fine o utilità immediata. Non si studia per, si studia e basta, per il piacere che si prova al momento o per il piacere che ce ne verrà poi, quando avremo studiato, cioè incamerato alcune nozioni che ci serviranno ad accedere a mondi altrimenti impenetrabili. Questa gratuità dello studio, questo suo valore non utilitaristico, è quello che mi sembra oggi più a rischio. La scuola e l'università stanno andando esattamente nella direzione opposta: promuovono uno studio utile, concreto, immediatamente spendibile per fini pratici, economici, sociali. Chiediamo ai giovani di scegliere Facoltà che li immettano direttamente nel mondo del lavoro. E stiamo cercando di cambiare la scuola in modo tale che quasi esclusivamente prepari al lavoro. Non è male in sé studiare per imparare un mestiere, ci mancherebbe! Ma il rischio è di perdere tutto ciò che non ci appare immediatamente utile e usufruibile, e che però arricchisce la nostra sostanza umana: le materie umanistiche prima di tutto, cioè appunto lo studio di tutto ciò che riguarda l'uomo in quanto tale e il senso del suo stare al mondo. Tutta roba che non porta alcunché di concretamente utile in nessun campo lavorativo: studiando Dante certamente non impariamo a gestire un'azienda, organizzare un convegno, curare un malato o costruire un ponte. Quindi, diciamo oggi, cosa lo studiamo a fare? Infatti stiamo riducendo le ore di latino, e in generale delle materie più astratte e inutili, come algebra, letteratura, filosofia. Secondo le direttive europee, quella è la scuola vecchia; meglio allenare i ragazzi al problem solving, certificare le loro competenze ( cioè le capacità di applicare le conoscenze, non il possesso fine a sé stesso e gratuito delle conoscenze), ed esercitarli al lavoro di gruppo. EÈ chiaro che il modello è l'impresa, l'industria, il commercio. Tutto deve rendere, oggi. E deve darci una resa visibile e immediata. Vogliamo essere visibili, apparenti: comparse. Vogliamo comparire il maggior numero di volte possibile. Se no, saremo dimenticati. E noi oggi proprio di questo abbiamo orrore: di essere dimenticati, non percepiti, accantonati. Se vogliamo essere alla ribalta, studiare non ha senso. Non ci rende visibili. Non ci porta su un palco. Non ci fa esistere. Ci vogliono troppi anni a fondo perduto, anni "nascosti", inutili, che non "producono" per la nostra vanità nulla di interessante. Noi siamo vanitosi e narcisi. Studiare forma soltanto la nostra sostanza umana, affina le capacità di pensiero, permette di accedere a piaceri speculativi che appartengono alle più alte sfere dello spirito. Troppo poco. Non ci lusinga. Per noi oggi una persona è il lavoro che fa e i fari che riesce ad avere addosso. Poi, solo poi, eventualmente, è anche una persona.
Paola Mastrocola (La passione ribelle)
In un mondo saturo di informazioni, la scelta di essere vaghi è come una tre- gua. Una corsa senza compravendita, senza sponsor, senza cellulare. Anche al di là del malinteso della distanza, Barkley non ha quasi niente a che fare con altre 100 miglia come Hardrock, Western States, UTMB o la Diagonale des Fous. La Barkley è un oltre-trail, un'isoletta inclassificabile riservata a quaranta corridori. Non ci sono vincitori, solo dei rari non-vinti. Ma soprattutto, a Frozen Head non si trova niente che non si abbia già, nessun trofeo da portarsi a casa. «La maggior parte delle corse sono organizzate in modo da essere sicuri di poterle finire. La Barkley non consiste soltanto nell'esplorare i limiti, ma nel confrontare i partecipanti. Mostra la fine e il limite di ognuno».
Alexis Berg (The Finishers: The Barkley Marathons)
- Il guaio è che anche io ti amo. - Lo so - rispose lei, senza scomporsi. - Ah lo sai. - Certo che lo so. Non c'è mica bisogno che tu me lo dica. - Tu me l'hai detto, però. - Tu non lo sapevi. Già, lui non lo sapeva, non lo sospettava neanche. Era programmato in modo differente, fino a poche settimane prima; anzi era semplicemente programmato. Poi qualcuno lo aveva resettato e da quel momento navigava a vista nella galassia. Senza Google Maps
Rebecca Quasi (Celestiale (Italian Edition))
E ha raccontato che le Sibille erano donne costrette al silenzio dai monaci inquisitori che le credevano creature del diavolo. Molte Sibille e profetesse di questi luoghi, ovvero donne sapienti come diceva Maurizio, furono accusate di stregoneria, e processate, e a volte arse al rogo. Di certo una venne bruciata in un paese non lontano, che si chiama Esanatoglia. Sospettavano di loro perché erano quasi sempre donne sole, che bastavano a se stesse, e conoscevano le erbe e il modo di usarle per curare. Molto spesso erano le altre donne, gelose o semplicemente spaventate da quello che non conoscevano, ad accusarle. Le donne sapienti fanno paura, conferma Viola.
Loredana Lipperini (Nome non ha)
Kitanai, kiken, kitsui” è un modo di dire Giapponese, traducibile in “sporchi, pericolosi e umilianti” e si riferisce a quei lavori non qualificati e sottopagati che pochi sono disposti a fare. Fino a poco tempo fa, l’utilizzo di lavoratori non biologici era riservato quasi esclusivamente a queste 3K; tuttavia, negli ultimi anni, si è consolidata una nuova tendenza che vede il fenomeno dei robot, intelligenza artificiale e service automation sempre più in concorrenza con i lavoratori umani per impieghi più specializzati e meglio pagati.
Simone Puorto (Hotel Distribution 2050. (Pre)visioni sul futuro di hotel marketing e distribuzione alberghiera)
Nell'aria c'è un forte odore di disinfettante, un'imitazione artificiale di un prato in fiore. Nel futuro, suppongo, a un certo punto non rimarrà quasi più nessuno a conoscere il profumo di un autentico prato in fiore. Forse di prati simili non ne esisteranno più, i fiori dovranno essere prodotti in laboratorio e chiaramente li architetteranno in modo che odorino di disinfettante, credendo che sia quello l'odore giusto…
Catriona Ward (The Last House on Needless Street)
Per un certo senso sembra quasi un paradosso che la Regina Dell’Oltretomba, sia una Dea fin troppo benevola e compassionevole, al contrario di Inanna, Dea della Vita, ma con il potere così devastante da porle fine, a volte in modo anche crudele.
Cleo Rozenfeld (La Stella (Saga del Sigillo della Luna, #1))
Che luce c’era nella stanza! In nessun momento del giorno poteva soffrire le persiane arrotolate fino in cima, ma di mattina erano intollerabili. Si rivoltò verso il muro e pigramente, con un dito, segui il contorno di un papavero sulla tappezzeria, foglia, gambo e bocciolino turgido. Nel silenzio, sotto la pressione delicata del suo dito, il papavero sembrò animarsi di vita. Le pareva di sentirne i serici petali appiccicosi, il gambo coperto di peluria come la buccia dell’uvaspina, la foglia ruvida e il boccio pregno. Non era la prima volta che le cose prendevano vita. E non solo le cose grandi, essenziali, come i mobili in genere, ma le tende, e i disegni delle stoffe, e le frange dei trapuntini, dei guanciali. Quante volte non le era accaduto di vedere la frangia a nappine della sua imbottita trasformarsi in una buffa processione danzante con un seguito di preti! ...Perché alcune nappine non danzavano affatto, ma incedevano solenni, curve in avanti, come in preghiera o in atto di cantare le lodi di Dio… Quante volte le boccette dei medicinali si erano trasformate in una fila di omini con un cilindro marrone in testa: e la brocca sul lavabo aveva un modo di stare accovacciata nel catino che faceva pensare a un grosso uccello in un nido rotondo. [...] “C’è un gran silenzio ora”, pensò. E, tenendo gli occhi aperti, sbarrati, udì il silenzio tessere la sua morbida tela di ragno senza fine. Com’era leggero il suo respiro: quasi non respirava neppure.
Katherine Mansfield (The Aloe)
Il monito della ninfea che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni, di modo che , il giorno che precede la copertura dell'intera superficie dello stagno, la metà ne resta scoperta, per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero, è portato intimamente a credere all'imminenza della catastrofe.
Remo Bodei, Limite
Gli attori italiani del dopoguerra avevano un modo di recitarlo che non si applicava a nessun altro poeta, solo all'autore della Commedia. Si doveva atteggiare la faccia a dannati michelangioleschi, descrivere con le mani gesti ampi e solenni, e scandire i versi col tono più innaturale che si fosse in grado di produrre, dilatando e incupendo le vocali e trascinando il più a lungo possibile le nasali o le fricative. L'unico altro personaggio cui Vittorio Gassman abbia prestato l'intonazione dantesca era Brancaleone da Norcia, ed è singolare che l'esatta impostazione che rendeva comico quest'ultimo rendesse in quegli stessi anni credibilissimo Dante. Si vede che era così che lo volevamo: sovrumano, innaturale, sublime e soprattutto lontano. Poi è arrivato Benigni a recitarlo come si usa recitare Pascoli, una rivoluzione culturale di cui si sono accorti in pochi, tra gli osanna a priori, le critiche accademiche e l'atteggiamento di gran lunga prevalente del "ben venga Benigni" (come dire: qualche strafalcione nell'esegesi, lasciamo perdere la recitazione, ah Carmelo Bene, ma, se milioni di persone tramite lui si accostano a Dante, tanto di cappello! Qualcuno si è spinto oltre: avessimo avuto al liceo un insegnante di lettere così!). Nessuno si è accorto che la vera rivoluzione di Benigni è stata proprio quella di riportare Dante sulla terra, quasi a sbeffeggiare il mastodonte romantico di piazza Santa Croce (il significante, non il significato) sotto il quale la rappresentazione avveniva.
Francesco Fioretti (Di retro al sol: Scritti danteschi (2008-2015))
Sapeva che cosa la turbava in quel grande negozio. Era il genere di cosa che non avrebbe cercato di spiegare a Richard. Erano, intensificate, quelle stesse cose che sempre l'avevano turbata, da che aveva uso di memoria: le azioni prive di scopo, le incombenze insignificanti fatte apposta, sembrava, per impedirle di fare quello che avrebbe desiderato, che avrebbe potuto fare. E li erano i procedimenti complicati con il denaro degli incassi, i controlli dei cappotti, gli orologi marcatempo che impedivano alle persone perfino di servire il magazzino al massimo della loro efficienza: la sensazione che ciascuno fosse nel l'impossibilità di comunicare con chiunque altro e vivesse su un piano completamente sbagliato, così che il significato, il messaggio, l'amore o quant'altro ciascuna vita possedeva, non potessero mai avere modo di esprimersi. Tutto ciò le richiamava alla mente conversazioni ai tavoli, sui sofà, con persone le cui parole sembravano aleggiare al di sopra di cose morte e inanimabili, persone che non toccavano mai una corda che vi-brasse, E quando uno tentava di toccare una corda viva, vedendosi subito fissare da facce eternamente impenetrabili, se ne usciva in un'osservazione così perfetta nella sua banalità da rendere quasi impossibile credere che si trattasse di un sotterfugio.
Patricia Highsmith, The Price of Salt
E si rimane per sempre quello che, a un dato momento, si è deciso che dovevi essere. Non c'è rielaborazione possibile: le persone devono essere ben catalogate, marchiate a vita. Almeno, però, fatemi un favore: non venitemi a dire che non è possibile; perché il dolore, la solitudine, la difficoltà nel sentirmi diverso da voi, li ho portati dentro da solo, quasi sempre in silenzio. La fatica di sembrare normale in modo che voi poteste stare tranquilli, l'ho fatta da solo. Adesso sono stanco, mi sono reso conto che non c'è bisogno di vergognarsi, nel sentirsi diverso. Ora ho deciso che io, tutto sommato, a questa normalità che distrugge il pianeta in cui vive, che odia chiunque manifesti delle differenze; a questa normalità che tenta di annientare il pensiero critico e aspira a una beata mediocrità, non voglio più assomigliarci.
Fabrizio Acanfora (Eccentrico: Autismo e Asperger in un saggio autobiografico)
Asami soffriva si una patologia che aumentava la probabilità di aborti spontanei. Una volta saputo di essere incinta, aveva deciso di tenere il bambino comunque, anche se da madre single. Presa questa decisione, la scoperta della sua patologia era stata uno shock ulteriore. Non poteva fare a meno di pensare che fosse stata colpa sua. Dava per scontato che anche Kurata avrebbe trovato qualcosa da dirle, tanto per consolarla. Invece, la sua prima reazione dopo aver ascoltato la sua storia fu chiedere da quanti giorni sapesse di aspettare un bambino. Quando lei gli disse che erano passate dieci settimane, lui le chiese: "Secondo te, perchè al bambino che avevi in pancia è stata concessa la vita in questo mondo per quei settanta giorni?". D'un tratto, non riusciva a smettere di aggredirlo. Si era già rimproverata per non aver dato alla luce il suo bambino, ma sentirsi dire una cosa simile da uno che non ne aveva alcun diritto la turbava ancora di più. Con aria pacata, Kurata attese pacificamente che Asami smettesse di piangere, poi disse: "Quel bambino ha usato i suoi settanta giorni di vita per renderti felice. Se continui a devastarti in questo modo, il tuo bambino avrà sprecato quei settanta giorni". Il suo messaggio non voleva essere consolatorio: le indicava una strada per cambiare il modo di interpretare il dolore che stava provando. "Invece, se adesso provi a essere felice, il tuo bambino avrà messo a frutto i suoi settanta giorni. E in quel caso, la sua vita avrà avuto senso. Solo tu puoi dare senso alla vita che ha ricevuto in dono. Perciò devi fare il possibile per essere felice. E la persona che lo vorrebbe di più è proprio il tuo bambino". Sentendolo parlare così, ad Asami mancò quasi il fiato. La profonda disperazione che le gravava sul cuore cominciò a dissiparsi, e ogni cosa le parve più chiara. "Cercando di essere felice, posso dare senso alla vita del mio bambino". Ecco la risposta.
Toshikazu Kawaguchi (Before the Coffee Gets Cold / Tales from the Café / Before Your Memory Fades (Before the Coffee Gets Cold, #1-3))
Una sera, Juan mi raccontò di porte che poteva aprire e di case che sembravano in un modo all'esterno ma che all'interno erano completamente diverse. Cosa stai facendo?, sussurrai. Niente, mi rispose, è successo e basta. Sono passato davanti a una casa che mi sembrava strana e, quando ho aperto la porta, mi sono reso conto che non era affatto una casa. Non dirlo a nessuno e non ci entrare, lo misi in guardia. Parlai con Laura di queste porte: io pensavo agli spazi liminali, lei mi suggerì di non menzionare più le porte al telefono, nel caso qualcuno stesse ascoltando, ed era quasi certo che fosse così.
Mariana Enríquez (Our Share of Night)
La guerra oggi è pace, e la pace è guerra. Le belle e le brutte notizie durano poco, assumono quasi subito un significato ambiguo, perdono chiarezza: e anche se non ci sono guerre o altre calamità, l’industria della paura impedisce che se ne parli in modo non allarmistico. Le belle notizie non fanno più notizia. Le brutte notizie sono, per definizione, le notizie.
Zygmunt Bauman (Male liquido: Vivere in un mondo senza alternative (Italian Edition))
«Sei fortunato ad avere Jude, anche se è lontano,» si trovò a dire, quasi sorpreso dal modo in cui quel pensiero, fino a poco prima impensabile, scivolava sulla lingua con la naturalezza delle verità meno dure.Raven sorrise, lanciando uno sguardo al vetro della finestra, buio e liscio come uno specchio: la luce sembrava tagliare fuori il cielo dove, in qualche punto imprecisato dello spazio aereo, il suo ragazzo sorvolava il continente, diretto verso la vita che stava costruendo altrove. «Lo so,» ammise. «Ma la fortuna può avere tante forme diverse. A volte è amore, altre amicizia,» aggiunse, spostando lo sguardo su di lui e rendendolo più complice. «Altre ancora entrambe le cose.»«Come capisci la differenza?» chiese Carlos, a bassa voce.Sulla loro testa, nel silenzio, la luce sfrigolò appena.«Penso che vari da persona a persona,» rispose Raven, con una scrollata di spalle. «E forse anche nel tempo. L’importante, per me, è sempre stato non lasciarmi frenare da questioni esterne. Come il nome che scegli di dare alle cose. O quello che pensi potrebbe pensare la gente.»«Sì,» disse lui lentamente, mentre l’eco di quelle parole si spegneva e lasciava altro spazio al silenzio. «Penso che tu abbia ragione»
Micol Mian (In luce fredda (Rosa dei venti Vol. 1))
«Vi amate. Lo ami davvero? Gesù, J!» «Cosa? Un gay non può innamorarsi?» «Jack, non c'entra niente! Lui è un Hayes, porca miseria! Non ricordi quello che Gerald Hayes ha fatto a papà? Ha falsificato dei documenti, ha mentito sull'acquisto dei terreni, è uscito dalla società a suon di assegni e ha lasciato papà in mezzo a una strada! Ti sei dimenticato quello che Gerald ha fatto a mamma?» Riley aveva sentito abbastanza. Spalancò la porta e si ritrovò davanti i due fratelli impegnati in un furioso alterco. «Come ho già detto a tua sorella, Josh, io non sono mio padre.» Rimase in attesa, finché Josh non sembrò essersi calmato. «Tuo fratello e io... siamo felici. Vogliamo far funzionare le cose. Abbiamo il tuo sostegno?» Josh serrò brevemente le palpebre, ma non abbastanza in fretta perché Riley non notasse il conflitto che gli albergava negli occhi. Alla fine, li aprì di nuovo e annuì, attirando a sé il fratello per abbracciarlo. «Merda. Se sei felice, lo sono anch'io, ragazzo. Lo sei?» Riley rimase a guardare mentre i due fratelli si abbracciavano, e qualcosa dentro di lui si spezzò. Jeff non lo aveva mai stretto a quel modo: per dargli sostegno, per proteggerlo, perché lo amava. Come si faceva tra fratelli. «Sono felice,» Jack rassicurò Josh. Dannazione, sembrava quasi convinto
R.J. Scott (The Heart of Texas (Texas, #1))