Mike Mansfield Quotes

We've searched our database for all the quotes and captions related to Mike Mansfield. Here they are! All 6 of them:

Mike Mansfield had a saying: “It only takes one senator to make a scene. But it takes more than one to make a difference.” Okay, he never said that. I made it up.
Al Franken (Al Franken, Giant of the Senate)
Two days after the president spoke, the Senate majority leader, Democrat Mike Mansfield, and the minority leader, Republican Everett Dirksen, together introduced a bill to guarantee voting rights to African Americans. A similar bill was soon introduced in the House of Representatives. Over ferocious opposition by Southern congressmen, the bill passed in both houses. On August 6, 1965, President Johnson signed the Voting Rights Act into law.
Lawrence Goldstone (On Account of Race: The Supreme Court, White Supremacy, and the Ravaging of African American Voting Rights)
Once secrecy becomes sacrosanct, it invites abuse.
Mike Mansfield
Before setting off to make his mark in baseball in 1887, Ed Delahanty went to his mother and announced, 'I'm goin' to quit you and play ball in Mansfield [Ohio].' 'Drat baseball,' shot back Mrs. Delahanty. 'It's ruinin' the family.' In a final attempt to win her approval, Ed reminded his mother of the money there was to be made in the game. 'I'm comin' home with "rocks" in me pocket,' he said. Mrs. Delahanty remained unimpressed. 'And many's the time ye've come back with rocks on the side of yer thick head,' she answered.
Mike Sowell (July 2, 1903: The Mysterious Death of Hall-Of-Famer Big Ed Delahanty)
L’estinzione dello statista Gary Hart* | 805 parole Per quelli di noi che hanno avuto il privilegio di servire nel Congresso degli Stati Uniti alcuni anni fa, ci sono notevoli differenze tra i migliori dei nostri colleghi di allora e molti degli attuali membri delle due Camere. Le differenze hanno a che fare con la levatura e le doti di statista. Come si spiega questa differenza? Ha in gran parte a che fare con la rivoluzione nei media. Le tre principali tribune trent’anni fa o giù di lì erano i programmi delle interviste della domenica mattina mandate in onda sui network e, in misura minore, i programmi quotidiani del mattino. Cronisti politici di lungo corso e intervistatori erano ben versati nelle questioni del giorno e avevano accumulato anni di esperienza sulle vicende nazionali e internazionali. Ci si aspettava che i personaggi politici, in particolare tra i candidati ad incarichi nazionali, sapessero di che cosa stessero parlando, e se così non era, le loro pecche erano evidenti. Le interviste e le discussioni erano serie, ma raramente conflittuali e certamente non di parte. Più di recente, le cose sono cambiate. Adesso abbiamo trasmissioni non-stop via cavo, network partigiani, intervistatori che si distinguono solo per il sensazionalismo e le polemiche, conduttori pieni di sé abili nell’arte del comizio, batterie di sconosciuti «strateghi» politici con poca o nessuna esperienza al di là di una precedente campagna (e un parrucchiere) domande conflittuali che sottintendono la malafede dell’intervistato, e un generale disprezzo per i personaggi politici basata sulla superiorità dell’intervistatore. In breve, i media - i mezzi con cui gli eletti comunicano con i cittadini - sono ora un quarto ramo del governo e si ritengono uguali se non superiori rispetto ai rappresentanti eletti e si auto-attribuiscono il ruolo di tribuni della plebe. E in cima a questo, la compressione dei media - la necessità di comunicare con slogan di otto secondi e con i 140 caratteri di un tweet. Il risultato è che si privilegiano politici loquaci, brillanti, affascinanti e semplici rispetto a quelli del passato più inclini a essere riflessivi, determinati, sostanziali e diplomatici. Questo processo sacrifica gli statisti, uomini e donne istruiti, e con esperienza nell’arte del governo. L’ulteriore risultato è la divisione della nazione in fazioni avverse servite da media di parte che riciclano pregiudizi diffusi e dogmi e con poco riguardo per un’analisi ponderata dei complessi temi nazionali e internazionali che richiedono senso della storia, impegno per l’interesse nazionale a lungo termine e il prevalere del senso dello Stato sullo spirito di parte. Si sbaglierebbe, tuttavia, a credere che la massiva trasformazione dei media sia la sola responsabile per la diminuita statura dei leader. E’ colpa anche della conversione dei legislatori in cacciatori di fondi a pieno tempo e la costante opposizione di eserciti di lobbisti. Anche i senatori, che restano in carica per sei anni, sprecano una parte di ogni giorno di quei sei anni a questuare contributi. È umiliante per loro e per la nazione che servono. A rischio di farne una questione personale, mettete a confronto (se avete una certa età) l’attuale generazione di politici che aspirano a un incarico di rilievo nazionale con, per esempio, Abe Ribicoff, Stuart Symington, Mike Mansfield, Gaylord Nelson, Charles Mathias, Jacob Javits Clifford Case, Ed Muskie, William Fulbright, Hubert Humphrey, e molti, molti altri. Andati. Tutti andati. Nell’America di oggi ci sono di certo figure di uguale statura. Ma pochi di loro si sottoporrebbero al frullatore mediatico, all’umiliante ricerca di fondi e alla lotta nel fango dell’arena politica che viene definito percorso legislativo. E’ troppo aspettarsi a breve termine il ritorno a un processo politico più serio. C’è troppo denaro dei media e potere in gioco, nel sistema attuale. E non ci sarà mai carenza di perso
Anonymous
President Kennedy regularly asserted two contradictory propositions about Vietnam: that the South Vietnamese must do the job for themselves and yet the United States must not quit there. Unable to reconcile the conflicting imperatives of avoiding another American ground war on the Asian mainland and avoiding the loss of South Vietnam, he remained indecisive. It was uncharacteristic of him. “When he knew what he really wanted,” McGeorge Bundy said of Kennedy, “he had no problem” making a decision. Kennedy did not live to see the consequences of removing Diệm, but his advisors did, and most of them came to view it as a grave mistake. “It was not well handled,” Bundy later admitted. “There was no victory for the United States in the fall of Diem” and “still less in his death.” That mishandling was rooted in naïveté. “The consequences were so unpredictable, including the death, which was no part of our intent or expectation, which was pretty stupid,” Bundy concluded. “We should have guessed that these people would feel that if you strike at a king, you strike to kill, which they did.” That there was no evacuation plan for Diệm was only one of the wretchedly telling signs that the American consideration of the coup’s possible outcomes was shallow and incomplete. In hindsight, Mike Mansfield was probably right when he said that Diệm “was the only one, despite his frailties, who could have kept South Vietnam together.” None of the generals who followed Diệm did better at leading South Vietnam, and most did worse. All of them would be equally if not more dependent on the United States. “The only durable result of the coup against Diem,” Bundy noted, “was durable political instability in Saigon.
Brian Van DeMark (Road To Disaster: A New History of America's Descent into Vietnam)