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Il coraggio dimostrato da Manfredi nel condurre l'ultima carica non fu sufficiente a salvargli la vita ed il regno: alla testa dei regnicoli rimastigli fedeli e dei ghibellini italiani guidati da Tebaldo Annibaldi, cavalcò verso il centro del combattimento cercando di prendere sul fianco gli uomini di Carlo ancora impegnati nel feroce duello con i tedeschi. Ma Roberto di Fiandra, che era di riserva al comando dei fiamminghi, intuì la manovra di Manfredi e cavalcò contro di lui per prevenirla. Ancora una volta vi fu uno scontro lance in resta tra cavalieri al galoppo in cui, raccontano le cronache, il cavallo del re fu ferito disarcionando il suo cavaliere. Una volta a terra, i fanti si avventarono su Manfredi che, non riconosciuto, immediatamente ucciso fu in si ossequio agli ordini ricevuti; probabilmente, gli uomini più vicini del suo seguito dovettero accorgersi dell'accaduto e avranno provato a recuperare il corpo del re in una mischia furiosa con i fiamminghi, mentre i contingenti guelfi, senza più nemici da fronteggiare, potevano ora portare liberamente alle spalle degli svevi per circondarli. Una volta appresa la morte di Manfredi e vedendosi aggirati, gran parte dei suoi uomini abbandonarono ogni volontà di resistenza e si diedero alla fuga. Come sempre accadeva nelle battaglie del passato, era questo il momento in cui avveniva la strage: i fuggiaschi, con le cavalcature stanche, venivano raggiunti nel disordine più abbattuti o presi prigionieri dai galvanizzati inseguitori. Molti finirono uccisi o annegarono nel Calore, una gran parte fu catturata, pochi riuscirono a porsi in salvo ritirandosi verso l'Abruzzo senza nutrire più alcuna speranza nelle sorti del regno.
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