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Diventi la mia bambina, madre, quando da vecchia ricordi con precisione d’orologiaia. Tu parli, io ti ricevo. Tu parli, io ti porto nella mia testa. Sì, per te, il mio ventre ha un calore di vulcano. Parli, taccio. Sono nata portatrice della tua sventura, come ci sono donne che nascono portatrici d’offerte. Per vivere, tu sai vivere nel passato. Ma certe volte il passato m’affatica da morire; quando, per esempio, verso mezzanotte, io sdraiata, tu seduta in una poltrona, mi dici: «Non ho amato che lui, ho amato una volta sola, dammi una caramellina», io divento lira e vibrafono per la tua criniera di polvere. Sei vecchia, ti abbandoni, io apro la bomboniera. Tu mi dici: «Hai sonno? Ti si chiudono gli occhi». Non ho sonno. Ho voglia di togliermi di dosso la tua vecchiaia. Mi arrotolo i capelli nei bigodini, le mie dita cantano i tuoi venticinque anni, i tuoi occhi azzurri, i tuoi capelli neri, la tua frangetta scolpita, la tua camicetta alta e ricamata, il tulle, il tuo cappello grande, e le mie sofferenze di quando avevo cinque anni. Mia elegante, mia ingualcibile, mia coraggiosa, mia vinta, mia rimbambita, mia gomma per cancellarmi, mia gelosa, mia giusta, mia ingiusta, mia comandina, mia timorosa. Cosa dirà la gente? Cosa penserà la gente? Cosa direbbe la gente? Le nostre litanie, le nostre trasfusioni. Quando torniamo dalla spiaggia, la sera, quando entri nelle botteghe, e col tuo sapiente battibecco incanti le massaie, io t’aspetto fuori, non voglio accompagnarti. Mi rodo nell’ombra, ti detesto, eppure si vede che ti amo, dato che mi sopprimo per lasciar posto ai clienti, ai fattorini, ai vicini. Tu ritorni, io ti dico: «Lo hai amato. E pensare che era un miserabile». Tu te ne hai a male. Ma no, non voglio demolire te, demolendo lui. «Un principe. Un vero principe». Così tu lo chiamavi. E io, ascoltando, schiumavo di rabbia; ora non schiumo più. Il giorno dopo, dal pizzicagnolo, tu dici: «Voglio della bella frutta. È per questa signorinella. Sennò, mi toccano i rimbrotti». M’offendi. Non ti toccherà nessun rimbrotto. Che ragazza tetra sei stata. La sbroda degli orfanotrofi t’aveva tagliato le gambe. Sempre stanca, sempre troppo stanca. Niente balli, niente passeggiate, niente amiche. Sdegnosa, chiusa, estenuata. La domenica sempre a letto. La campagna ti stancava, la città ti rimaneva ostile benché tu comprassi colletti, polsini alla moda del 1905, e soccorressi, come la santa, protestanti bisognosi.
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