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Sveglia, ero oppressa da un incubo: nell'appartamento di sopra, in quello contiguo, nei bianchi casamenti moderni che sorgevano accanto al nostro, in tutte le case di Roma, in tutte le case del mondo, vedevo le donne sveglie nel buio, dietro l'invalicabile muro delle spalle maschili. Parlavamo lingue diverse, ma tutte tentavamo invano di far udire le stesse parole: nulla poteva attraversare l'incrollabile difesa di quelle spalle. Bisognava rassegnarsi ad essere sole, dietro il muro, e stringerci tra noi, sorreggerci, formare un grumo di sofferenza e di attesa. Era il solo conforto che ci fosse consentito, insieme a quello di lavorare, partorire, piangere, e questo davvero era il nostro sollievo: piangere, sole, sedute nelle cucine azzurre che al tramonto divengono livide e tristi, nelle cucine grigie dove i ragazzini giuocano in terra e spesso anche loro piangono con voci lugubri e già adulte. Alcune tra noi, come la Nonna, si appagavano nell'esser padrone dei grandi armadi della biancheria, cupi e solenni come bare: altre, senza saperlo, si riducevano addirittura a dimenticare se stesse in un seguito di giorni ricchi, futili, mondani. Ma tutte, talvolta o sempre, dormivano nel freddo, dietro un muro. Tutte. Le sentivo gemere, implorare, senza essere udite: perché la voce di una donna è solamente povero fiato; e il muro è pietra, cemento, mattoni.
("Dalla parte di lei")
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