Sto Nino Quotes

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È stata la prima e l’ultima volta in cui ha cercato di chiarirmi il sentimento del mondo dentro cui si muoveva. Finora, disse – e qui riassumo a parole mie di adesso –, ho creduto che si trattasse di momenti brutti che venivano e poi passavano, come una malattia di crescenza. Ti ricordi quando ti ho raccontato che s’era spaccata la pentola di rame? E del capodanno del 1958, quando i Solara ci spararono addosso, ti ricordi? Gli spari furono la cosa che mi fece meno paura. Mi spaventò invece che i colori dei fuochi d’artificio fossero taglienti – il verde e il viola soprattutto erano affilati –, che ci potessero squartare, che le scie dei razzi strusciassero su mio fratello Rino come lime, come raspe, e gli spaccassero la carne, che facessero sgocciolare fuori da lui un altro mio fratello disgustoso che o rimettevo subito dentro – dentro la sua forma di sempre –, oppure mi si sarebbe rivoltato contro per farmi male. Per tutta la vita non ho fatto altro, Lenù, che arginare momenti come quelli. Mi faceva paura Marcello e mi proteggevo con Stefano. Mi faceva paura Stefano e mi proteggevo con Michele. Mi faceva paura Michele e mi proteggevo con Nino. Mi faceva paura Nino e mi proteggevo con Enzo. Ma proteggere che significa, è solo una parola. Dovrei farti, adesso, un elenco minuto di tutte le coperture grandi e piccole che mi sono costruita per starmene nascosta, e invece non mi sono servite. Ti ricordi quanto mi faceva orrore il cielo di notte a Ischia? Voi dicevate com’è bello, ma io non potevo. Ci sentivo un sapore di uovo marcio col tuorlo gialloverdognolo chiuso dentro l’albume e dentro il guscio, un uovo sodo che si spacca. Avevo in bocca stelle-uova avvelenate, la loro luce era di una consistenza bianca, gommosa, si attaccava ai denti insieme alla nerezza gelatinosa del cielo, la tritavo con disgusto, sentivo uno scricchiolio di granuli. Mi spiego? Mi sto spiegando? Eppure a Ischia ero contenta, piena d’amore. Ma non serviva, la testa trova sempre uno spiraglio per guardare oltre – sopra, sotto, di lato –, dove c’è lo spavento. Nella fabbrica di Bruno, per esempio, mi si spezzavano le ossa degli animali sotto le dita solo a sfiorarle e ne usciva un midollo rancido, ho provato una tale repulsione che ho creduto di essere malata. Ma ero malata, avevo veramente il soffio al cuore? No. L’unico problema è sempre stato l’agitazione della testa. Non la posso fermare, devo sempre fare, rifare, coprire, scoprire, rinforzare, e poi all’improvviso disfare, spaccare. Tu prendi Alfonso, mi ha messo ansia fin da quando era ragazzino, ho sentito che il filo di cotone che lo teneva insieme stava per rompersi. E Michele? Michele si credeva chissà chi, e invece è bastato trovare la linea di contorno e tirare, ah, ah ah, l’ho spezzato, ho spezzato il suo cotone e l’ho ingarbugliato con quello di Alfonso, materia di maschio dentro materia di maschio, la tela che tessi di giorno si disfa di notte, la testa trova il modo. Ma serve a poco, il terrore resta, se ne sta sempre nello spiraglio tra una cosa normale e l’altra. Se ne sta lì in attesa, l’ho sempre sospettato, e da stasera lo so di sicuro: non regge niente, Lenù, anche qua nella pancia, la creatura sembra che duri e invece no. Ti ricordi quando mi sono sposata con Stefano e volevo far ricominciare il rione punto e daccapo, solo cose belle, il brutto di prima non ci doveva essere più? Quant’è durato? I sentimenti gentili sono fragili, con me l’amore non resiste. Non resiste l’amore per un uomo, non resiste nemmeno l’amore per i figli, presto si buca. Guardi nel foro e vedi la nebulosa delle buone intenzioni confondersi con quella delle cattive. Gennaro mi fa sentire in colpa, questo coso qui dentro la pancia è una responsabilità che mi taglia, mi graffia. Voler bene scorre insieme al voler male, e io non riesco, non riesco a condensarmi intorno a nessuna volontà sana.
Elena Ferrante (The Story of the Lost Child (Neapolitan Novels, #4))