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Divorzio e referendum sul divorzio. La norma religiosa nello spazio pubblico Il secondo punto che avrei voluto discutere con Giussani riguarda un episodio raccontato nel libro, che merita a mio avviso una riflessione più profonda, più dettagliata, perché ha un significato più che storico. Riguarda, infatti, la posizione della religione nello spazio pubblico, allora e oggi. Si tratta del coinvolgimento di CL nel referendum Fanfani del 1974, che cercava di abrogare la legge che permetteva il divorzio. CL, guidata da Giussani, sosteneva il «Sì» seguendo fedelmente le indicazioni della CEI. C’era qualche voce dentro il movimento (vedi a pagina 458) che consigliava diversamente, e non per ragioni di principio ma di opportunità politica. Come sappiamo, la proposta abrogativa fu sconfitta clamorosamente. All’indomani del voto Giussani ha reagito in modo assai militante, quasi amaro. Ma in dieci anni il suo pensiero è diventato più sottile. Cito da pagina 459: il referendum «portò alla ribalta una situazione fino ad allora non da tutti chiaramente percepita; e soprattutto poco percepita all’interno della Chiesa istituzionale, dove spesso si continuava malgrado tutto a credere che l’Italia fosse un paese ancora incontestabilmente e largamente cattolico. […] Valutando la questione a posteriori penso di poter concludere che una presa di coscienza della situazione così chiara ed inequivocabile, anche se brutale, fu meglio per la Chiesa di quel che altrimenti sarebbe potuto accadere: che cioè il declino della presenza cattolica nella società italiana continuasse in modo strisciante, ed inavvertito da molta parte della Chiesa istituzionale». Se avessi avuto la possibilità di discutere con Giussani, gli avrei domandato: «Secondo lei, se la situazione sociale in Italia fosse stata diversa, cioè se il Paese fosse stato ancora incontestabilmente e largamente cattolico, sarebbe stata una giustificazione per votare “SÌ” all’abrogazione?». A mio umile avviso, anche in queste condizioni sarebbe stato un errore votare «SÌ», perché in questo modo si nega la volontà di Dio e, se ho capito bene, anche l’insegnamento del Concilio Vaticano II sul rapporto fra la religione e il potere coercitivo dello Stato. Come ha spiegato con chiarezza e coraggio Benedetto XVI davanti al Bundestag, esistono norme religiose che, pur essendo religiose, sono spiegabili nei termini della semplice ragione di cui Dio ha dotato tutti gli esseri umani. Il monito: «Non uccidere» si trova nei Dieci Comandamenti, parole rivelate direttamente di Dio. Ma anche senza questa rivelazione sarebbe giustificabile davanti ai credenti e ai non credenti. La sua coincidenza con la rivelazione può aggiungere un’ulteriore motivazione per il credente, per il quale uccidere non sarà solo un reato contro la legge e contro le norme morali e l’etica generale, ma anche un peccato davanti a Dio. E il credente, senza alcuna esitazione, può mobilitarsi perché diventi legge generale applicata e tutelata dallo Stato con tutto il suo potere coercitivo. Ma l’indissolubilità del matrimonio cattolico è una questione diversa. È, infatti, espressione del concetto di matrimonio «sacramentale» (la parola non ha alcun significato nel vocabolario dello Stato non confessionale), che distingue lo sposo cattolico non soltanto dai suoi concittadini non credenti, ma anche dai credenti di altre religioni (come Protestanti, Ebrei e Musulmani che, pur avendo il matrimonio sacramentale, prevedono la possibilità del divorzio). C’è un elemento molto particolare nel matrimonio cattolico (che secondo tanti è un elemento molto nobile), perché esso è concepito come un’unione che coinvolge tre parti, i due sposi e Dio, che assegna a tale unione un valore addirittura sacramentale, che assegna una certa santità (un’altra parola che non esiste nel vocabolario dello Stato non confessionale) al matrimonio e che ne spiega e giustifica l’indissolubilità in termini religiosi. Il matrimonio civile, però, è del tutto diverso. Per la mia
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Alberto Savorana (Un'attrattiva che muove: La proposta inesauribile della vita di don Giussani)