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Granville mangiò con metodo, il pensiero apparentemente rivolto ancora al passato che le mie domande gli avevano fatto rivivere. «Un uomo viene ricordato spesso», disse riflettendo, «più per come ha vissuto – o è morto – che per quello che ha scritto. Oppure, si trasforma nelle sue opere: Cervantes è diventato Don Chisciotte, Byron è diventato Don Juan. E Hemingway l’uomo forte e senza paura, e Scott Fitzgerald per sempre giovane e bellissimo».
«E dannato?», osai.
«Sì», rispose. «Ma risorto».
Proseguì spiegando che ogni scrittore, dopo la morte, va in un limbo in cui aspetta o che la sua opera sia riportata alla luce, oppure che sia dimenticata per sempre. «Alcuni», disse, «risvegliati dagli amici o da qualche studioso, vivono una seconda esistenza, per poi ricadere nell’oscurità, e questa è la vera morte a cui non segue resurrezione. Altri rimangono in attesa nelle tenebre, e aspettano invano, e alla fine scompaiono in una nota d’appendice. Ma altri ancora, come Shelley, brillano più che quando erano in vita.
Naturalmente, esistono delle eccezioni. Goethe non si è mai eclissato: come figura letteraria non è mai morto. È stato venerato in vita, e ancora è compreso nel novero degli immortali, divini, riveriti, e antisemiti. Non si può parlare con certezza dei Greci e dei Romani, perché ci si è messo di mezzo il Medioevo, quando tutta la conoscenza era concentrata nelle mani della Chiesa, e non si sapeva niente di certo se non che la terra era piatta. Quanto ai candidati di oggi, è ancora troppo presto per dirlo; e inoltre, ce ne sono troppi… Ogni anno, i critici prendono un ragazzo nuovo sul capo del quale pongono la corona d’alloro, per quanto mi riguarda ciascuno più sconosciuto del precedente. E il poeta laureato dell’anno prima scompare nella storia, insieme a Whittier, e a William Vaughan Moody».
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