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Presi in giro dalla doppia ipocrisia di calcio e politica Michele Brambilla | 723 parole Sinceramente: non ne possiamo più di sentire un ministro dell’Interno che dice «nessuna clemenza» per i delinquenti che rovinano una partita di calcio. Ci sentiamo presi in giro. Sono anni che, periodicamente, siamo qui a commentare incidenti aggressioni e ferimenti prima, durante e dopo le partite. Abbiamo visto di tutto: tifosi ammazzati con una coltellata, capi ultrà che intimano ai giocatori di non giocare un derby, motorini lanciati dal secondo anello. E i ministri dell’Interno e i capi di governo che dicono: adesso basta, nessuna clemenza. Poi, tutto resta come prima. Altrettanto sinceramente: non ne possiamo più neppure di sentire ministri dell’Interno che si complimentano con le forze dell’ordine per aver «subito identificato e fermato» i delinquenti che hanno tirato le bombe carta dentro lo stadio. Eh no, signor ministro, anche qui ci sta prendendo in giro. Qualsiasi buon padre di famiglia sia andato almeno una volta allo stadio, sa che ai tornelli viene fermato, controllato, perquisito: e se ha una bottiglietta di acqua minerale, gli viene ordinato di togliere il tappo. Poi però i cosiddetti ultras possono portare dentro di tutto, compreso il materiale per fabbricare le bombe carta. Ecco perché ci sentiamo presi in giro anche per i complimenti alle forze dell’ordine che individuano e fermano: bisogna pensarci prima, signor ministro. Le «forze dell’ordine», come le chiama lei, devono perquisire i cosiddetti ultrà come intrepidamente perquisiscono i nonni. È passato un anno dalla finale di Coppa Italia che aveva fatto indignare il presidente del Consiglio. Era presente allo stadio e aveva assistito con i propri bambini allo strazio della trattativa fra un soggetto chiamato Genny ’a carogna e la polizia. Aveva dunque promesso interventi durissimi e immediati. Siamo ancora qui, come venti o trenta anni fa. E a proposito di trent’anni fa: nel 1985 ci fu la tragedia dell’Heysel, una strage provocata dai cosiddetti holligans. La Gran Bretagna decise che bisognava fare sul serio, e sul serio fece. Da allora, in Inghilterra non è più successo nulla. In Italia, invece, solo il nuovo stadio della Juventus ha provato a replicare il modello inglese. Per il resto, tutto è ancora come ai tempi di quel derby romano del 1979, quando un tifoso venne accoppato da un razzo sparato dalla gradinata opposta. Questo è dunque un fronte: l’ipocrisia delle società di calcio e della politica, capaci solo di esprimere il consueto «sdegno». Un altro fronte riguarda la domanda, che prima o poi dovremo pur porci in profondità, sull’immensa quantità di rabbia, di rancore e di violenza che si è riversata sul mondo del calcio. Non solo su quello professionistico. Chiunque abbia figli che giocano nelle giovanili sa di che cosa sto parlando. Le partite dei ragazzi e dei bambini sono ormai diventate momenti in cui genitori e ahimè spesso anche gli allenatori e i dirigenti sfogano tutto l’irrisolto che si portano dentro. Ieri ho visto una partita di uno dei miei figli e a un certo punto è entrato un ragazzo di colore. Uno degli avversari gli ha detto: «Sei venuto in Italia a rompere i c...?». L’arbitro per fortuna ha sentito e l’ha espulso. Ma mentre l’espulso, uscendo dal campo, gridava al ragazzo di colore «ci vediamo fuori», il suo allenatore, invece di zittirlo, insultava l’arbitro per aver tirato fuori il cartellino rosso per così poco. Tutto questo mentre sugli spalti i genitori delle due squadre – che avevano appena deprecato gli incidenti del derby di Torino – se ne dicevano di tutti i colori. Ecco, credo che dovremo anche chiederci come mai il calcio sia diventato il ricettacolo di tanta violenza repressa. I tifosi che gridano «uccideteli» in serie A sono immersi nello stesso odio che fa litigare anche sui campi dove sgambettano i pulcini. Insomma i fronti sono due: la politica e le società
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