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I nostri cinque peccati che scoraggiano ricerca e innovazione Dalla politica all’università , il sistema italiano continua a ostacolare l’economia della conoscenza Start-up al palo Dai laboratori al business: in Italia è ancora difficile riuscire a trasferire le scoperte teoriche nell’industria Riccardo Viale | 831 parole Da quando è stato introdotto il concetto di economia e di società della conoscenza, come importante elemento delle politiche pubbliche, si è iniziato ad analizzare l’insieme delle condizioni di contorno - le «framework condition» - in grado di stimolare o di ostacolare lo sviluppo di questo modello. La strategia di Lisbona del 2000 aveva lo scopo di rendere l’Europa l’area più competitiva a livello mondiale proprio come economia e società della conoscenza. Oggi abbiamo i risultati: in media c’è stato un arretramento, secondo la maggior parte degli indicatori, rispetto ai principali concorrenti internazionali. E l’Italia? Come si può immaginare, non ha realizzato alcun serio passo in avanti: non solo per le condizioni dirette (come finanziamento alla ricerca, numero di ricercatori e di brevetti, indici bibliometrici o rapporto università -impresa), ma per le «framework conditions». Ma più che dare dati vorrei riferirmi ad una serie di situazioni tipiche, ragionando con il modello degli incentivi dal macro al micro. Per mostrare come la dinamica sociale ed economica italiana sia intrisa di incentivi negativi. La logica del breve termine Innanzitutto, a livello di sistema politico e di governo nazionale e regionale, gli obiettivi dell’economia e della società della conoscenza sono in genere percepiti di medio e lungo termine. Di conseguenza, in un Paese che vive lo «shortermismo» della logica emergenziale, nulla è più marginale del sistema della Ricerca&Sviluppo. Questo «bias», d’altra parte, non è solo italiano, se si considera la recente scelta di Juncker di indebolire il fondo «Horizon 2020» per potenziare quello di stimolo immediato all’economia. Seconda tipologia. Le università italiane sono fuori da tutte le graduatorie internazionali. Anche le migliori, come il Politecnico di Milano e Torino o la Bocconi, sono a metà classifica. Si sa che uno degli strumenti prioritari per stimolare l’eccellenza e la diversificazione accademica è la «premialità economica» dei migliori atenei, secondo un sistema simile a quello del «Rae» britannico: lasciando da parte il problema del mediocre sistema italiano della valutazione, mentre in Gran Bretagna l’incentivo economico arriva a un terzo del finanziamento pubblico, da noi si ferma a molto meno (anche se dai tempi del ministro Moratti si vede un certo progresso). Non esiste, quindi, un sufficiente effetto incentivante di tipo meritocratico sulla produzione di conoscenza. Terza tipologia. Anni fa, in Lombardia, una multinazionale della telefonia aveva proposto un centro di ricerca avanzato. Ciò avrebbe consentito una collaborazione con i centri di ricerca già presenti nel territorio, in primis il Politecnico di Milano. Cosa successe dopo? Una lista di problemi, ostacoli ed incoerenze tipiche della pubblica amministrazione. Tutto questo era in contrasto con il programma dell’azienda, che decise di trasferire il progetto in un altro Paese. Quarta tipologia. Spesso si parla di sostenere le nuove idee per garantire la nascita di start-up ed imprese innovative. Ma quale incentivo può avere un ingegnere o un biochimico a creare una «newcom», quando è quasi impossibile trovare il «seed money» (quello per le fasi iniziali) nelle banche ed è quasi inesistente il capitale di rischio del venture capital, mentre non si ha la possibilità di valorizzare finanziariamente una start-up a livello di Borsa, dato che manca, in Italia ma anche in Europa, un analogo del Nasdaq? La crisi del fund raising Infine - quinta ed ultima (tra le molte) tipologia di disincentivi - è la capacità di «fund raising» per la ricerca dei
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