Buon Anno Quotes

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Oggi, 31 dicembre 2023, ho scelto un buon proposito da realizzare nell'anno che verrà .... No, non si tratta di qualcosa di irrealizzabile come mettersi a dieta e andare in palestra
Various
Mi stupisco che non ci abbia ancora mandato gli auguri di Natale", ha commentato Antonio. "Me li immagino, di buon gusto, stampati in rilievo su pergamena, le migliori cartoline che riesce a rubare. Un breve messaggio in perfetta calligrafia: 'Buone vacanze, spero che stiate tutti bene. Ho fatto a fettine Ethan Ritter a Miami e ho gettato i resti nell’Atlantico. Vi faccio i miei migliori auguri per l’anno nuovo. Karl'.
Kelley Armstrong (Bitten (Otherworld, #1))
...oh, mi sono divertita in quegli anni, credo", stava dicendo April. "Me lo ricordo sempre come un periodo felice, stimolante, e ritengo che lo sia stato, eppure", la sua voce non era più monocorde, adesso, "eppure mi pareva ancora...non so". "Ti pareva ancora che stessi perdendo il meglio della vita?" "In un certo senso, sì. Avevo ancora l'impressione che da qualche parte esistesse tutto un mondo di gente meravigliosa, un mondo altrettanto superiore al mio di quanto lo erano le ragazze dell'ultimo anno, a Rye, quando io facevo la prima media; gente che sapeva ogni cosa per istinto, che dava alla propria esistenza la direzione che più gli garbava senza neppure il minimo sforzo, che non doveva mai far buon viso a cattivo gioco perché gli riusciva sempre tutto alla perfezione la prima volta che ci provava. Una specie di eroici superuomini, tutti belli e spiritosi e calmi e gentili, e mi sono sempre immaginata che, se mi fosse stato dato di scoprirli, subito mi sarei resa conto di appartenere anch'io alla loro razza, di essere una di loro, di essere da sempre destinata a essere una di loro, e che tutto ciò che era accaduto nel frattempo era stato un errore; e anche loro l'avrebbero capito. Ero una specie di brutto anatroccolo tra i cigni, insomma". [...] April non aveva davvero voglia di parlare; non con lui, comunque. Tutto quel che voleva era sfogarsi, liberarsi recitando la parte della malinconica e della disillusa, e aveva scelto lui come spettatore.
Richard Yates (Revolutionary Road)
Frustrato, Doug tentò un’altra strada. “Ascolta, supponiamo che la maggioranza voti per la Brexit e noi...” “Scusami se ti interrompo,” disse Nigel. “Supponiamo che la maggioranza voti per cosa?” “Brexit.” Nigel lo guardò sbalordito. “Come mai salti fuori con questa parola?” “Non è così che la chiamano tutti?” “Credevo che si dicesse Brixit.” “Cosa? Brixit?” “Noi diciamo così.” “Noi... chi?” “Dave e tutto il gruppo.” “Tutti dicono Brexit. Da dove viene Brixit?” “Non lo so. Pensavo che si dicesse così.” Di nuovo prese un appunto sul taccuino. “Brexit? Sei sicuro?” “Sicurissimo. È una parola composta. British exit.” “British exit... Allora dovrebbe essere Brixit?” “Be’, i greci l’hanno chiamata Grexit.” “I greci? Non sono usciti dall’Unione europea.” “No, ma hanno valutato la possibilità di farlo.” “Noi non siamo i greci. Dovremmo avere una parola che sia unicamente nostra?” “Ce l’abbiamo. Brexit.” “Ma noi continuiamo a dire Brixit.” Scuotendo la testa, Nigel continuò a scrivere. “Sarà una notizia bomba nel prossimo consiglio dei ministri. Spero che non tocchi a me comunicarlo.” “A che ti serve avere una definizione se sei sicuro che la cosa non succederà?” gli domandò Doug. Nigel sorrise felice. “Naturale... hai ragione da vendere. Non succederà e quindi non ci serve definirla.” “Ecco, vedi.” “Dopotutto, tra un anno, nessuno si ricorderà più di questa stupida faccenda.” “Esattamente.” “Nessuno si ricorderà che qualcuno voleva la Brixit.” “Proprio così. Però, sai, alcuni di loro...” Si chiese come dovesse metterla. “Sono personaggi da prendere sul serio, no? Boris Johnson, per esempio. Un vero peso massimo.” “Non infierire sul suo aspetto fisico,” disse Nigel. “Anche se Dave è molto arrabbiato con lui.” “Non si aspettava che si pronunciasse a favore dell’uscita?” “No, non se l’aspettava.” “Gira voce che la sera prima che il ‘Telegraph’ andasse in stampa, Boris avesse preparato due articoli – uno in cui sosteneva l’uscita e l’altro in cui si dichiarava favorevole a restare nell’Unione europea.” “Non ci credo per niente,” disse Nigel. “Boris avrebbe preparato tre articoli: uno per uscire, l’altro per restare e il terzo perché non riusciva a decidere. Gli piace essere sempre pronto.”“E poi c’è Michael Gove. Un altro attaccante che si è pronunciato a favore dell’uscita.” “Lo so. Dave è arrabbiatissimo con Michael. Per fortuna rimangono molti conservatori leali e di buon senso che apprezzano i benefici di restare membri della UE. Credo che tu vada a letto con una di loro. Ma prova a immaginare cosa pensa Dave di Michael e di alcuni altri. Insomma, è andato a Bruxelles, è tornato con un accordo assai vantaggioso, e questi non sono ancora contenti.” “Semplice: a molti non va giù la UE,” disse Doug. “Pensano che non sia democratica.” “Sì, ma uscirne sarebbe un male per l’economia.” “Pensano che la Germania comandi a bacchetta su tutti.” “Sì, ma uscirne sarebbe un male per l’economia.” “Pensano che dalla Polonia e dalla Romania siano arrivati troppi immigrati che spingono i salari al ribasso.” “Sì, ma uscirne sarebbe un male per l’economia.” “D’accordo,” disse Doug. “Credo di avere appena capito quali saranno i tre punti strategici della campagna di Dave.” Adesso era il suo turno di prendere appunti. “E come la mettiamo con Jeremy Corbyn?” Nigel inspirò con un lungo sibilo e sobbalzò visibilmente. “Jeremy Corbyn?” “Se il quadro è questo, lui dove si colloca?” “Preferisco non parlarne.” “Perché no?” “Perché no? Perché è un marxista. Marxista, leninista, trotzkista, comunista. Maoista, bolscevico, anarchico, di sinistra. Un socialista fondamentalista, anticapitalista, antimonarchico, pro-terrorismo.” “Ma è anche uno che vuole rimanere nella UE.” “Davvero?” “Così dice.” “Allora, naturalmente, saremo felici di averlo a bordo. Ma non credo che Dave sarebbe pronto a condividere alcunché sul piano politico.” “Non sarà necessario. È Jeremy il primo a respingere un accordo di questo tipo.” “Bene.
Jonathan Coe (Middle England (Rotters' Club, #3))
Neanche l’1% delle proposte degli onorevoli diventa legge Carlo Bertini | 344 parole Non dovrebbe essere solo il premier a spingere perché gli onorevoli lavorino cinque giorni a settimana, visto che ancora servono in media tre giri di valzer nei due rami del Parlamento per veder approvata una legge. A spulciare qualche numero delle statistiche elaborate dal sito Openpolis emerge che forse dovrebbero essere gli stessi parlamentari a preoccuparsi di trovare il modo per riuscire a portare a casa qualcosa della sterminata mole di proposte che avanzano ogni mese. Quelle di iniziativa parlamentare che vanno a buon fine sono una percentuale infinitesimale. Neanche l’un per cento dei disegni di legge presentati dagli onorevoli eletti nel 2013 è diventato legge. Cioè dei 4000 disegni di legge presentati in questa legislatura solo 26 hanno visto la luce, pari allo 0,66%. Ben maggior successo hanno riscosso le proposte governative, pari al 20% come riporta l’analisi dettagliata di Openpolis. E anche nei tempi di approvazione il governo surclassa i parlamentari: 77 giorni in media per veder varata una sua legge, contro i 245 che mediamente impiegano quelle dei parlamentari. Curiosità: tra i partiti vince Sel di Vendola. Ne ha presentate 89 e viste approvate 4 con il 4,46%. Il Pd invece ne ha presentate 1400 con la solita bulimia e ne ha viste approvate solo lo 0,77%, battuto perfino dall’1,11% di Forza Italia. Missing Italicum La commissione affari costituzionali del Senato si sta occupando della riforma della pubblica amministrazione, una riforma complessa che potrebbe da sola impegnare i lavori nelle prossime settimane. Peccato che anche la legge elettorale dovrebbe essere discussa e approvata dalla stessa commissione. Il renziano Roberto Giachetti da giorni chiede conto e ragione di quella che definisce una «melina». Indignandosi che la legge elettorale sia sparita dai radar, «missing». E avvertendo che di questo passo non si riuscirà a varare l’Italicum entro l’anno come promesso. Ma nulla si sbloccherà fino a quando Pd e Forza Italia non troveranno un’intesa sul ballottaggio tra coalizioni o tra liste...
Anonymous
Se il Paese diventa terra di conquista Francesco Manacorda | 673 parole Da ieri, con la stretta finale delle trattative per l’ingresso della China National Chemical Corporation nella società che controlla la Pirelli con oltre il 26% del capitale, il termine «scatole cinesi» ha in Italia un significato più letterale. Le scatole cinesi sono quelle società che incastrate una sopra l’altra consentono all’azionista che sta in cima di controllare le attività che stanno sotto con un impegno di capitale limitato. È ad esempio il metodo che ha consentito a Marco Tronchetti Provera di controllare la Pirelli, di cui è presidente e amministratore delegato, con una partecipazione che di fatto ammonta a poco più del 6% del capitale della società produttiva. Ma tra poco, appunto, sopra la Pirelli ci sarà una vera scatola cinese, visto che quella quota del 26% e rotti con cui la finanziaria Camfin la controlla verrà ceduta a una nuova società il cui azionista di maggioranza dovrebbe essere proprio il colosso chimico di Pechino. Sarebbe un esercizio inutile e anche un po’ stucchevole lamentare il passaggio del controllo di un altro grande gruppo italiano nelle mani di un socio di maggioranza straniero. In un’epoca di mercati aperti - anche se non simmetricamente aperti, visto che per gli europei è decisamente più difficile investire in Cina che non viceversa - non ci deve essere scandalo nella mobilità dei capitali. E un «mercatista» puro zittirebbe qualsiasi obiezione con pochi numeri: i cinesi valorizzano il titolo Pirelli 15 euro per azione, un livello che non raggiungeva da un quarto di secolo; ne beneficia ovviamente Tronchetti, ma ne beneficeranno anche tutti gli altri azionisti grandi e piccoli del gruppo, visto che la nuova società dovrebbe lanciare un’Opa a 15 euro per levare la Pirelli da Piazza Affari e poi riportarne in Borsa una parte dopo qualche anno. Ma non pare nemmeno che si possa gioire troppo, esaltando una presunta attrattività del sistema italiano per gli investitori stranieri: i cinesi non vengono certo ad aprire una fabbrica partendo dal nulla, attratti dalle ottime condizioni che l’Italia pratica per le imprese; invece acquisiscono di fatto brand e tecnologie di una società che fa la gran parte del suo fatturato all’estero e offrono - almeno a giudicare dal primo comunicato emesso ieri mattina - solo l’assicurazione che Pirelli «manterrebbe gli headquarter in Italia» - particolari garanzie di radicamento. Meglio concentrarsi allora su un paio di elementi che sono assai sintomatici della situazione italiana. Il primo è che nella maggior parte dei casi le aziende italiane invece di aggregare altre società dello stesso settore all’estero - Fca, Autogrill e Luxottica sono alcune delle eccezioni che vengono in mente, ma ce ne sono altre, anche se di taglia più ridotta - vengono aggregate. È una condanna di aziende sottocapitalizzate e di dimensioni grandi, ma non abbastanza grandi da competere da sole sul mercato globale. Ed è una condanna dell’Italia, dove questa tipologia di società abbonda. Il secondo tema è quello della distinzione tra proprietà e controllo di un’azienda. Spesso nelle aziende a proprietà familiare la presenza di manager esterni viene vista come un fattore positivo. In Pirelli l’inversione di questo meccanismo è evidente: Marco Tronchetti Provera, azionista «in chiaro» con poco più del 6% è presidente e ad. E in tutti i passaggi di questi anni in cui ha trovato soci da far entrare nel capitale - prima i genovesi Malacalza con i quali non è finita benissimo, poi i russi di Rosneft, ostacolati dalle sanzioni Ue contro la Russia - è stato attento a mantenere le sue cariche. Lo farà anche adesso, visto che la previsione è che resti al suo posto ancora per un quinquennio. Ruoli manageriali immutabili e azionisti che preferiscono non aprire il portafoglio, insomma, sembrano un buon viatico per diventare prede invece di cacciatori.
Anonymous
Presi in giro dalla doppia ipocrisia di calcio e politica Michele Brambilla | 723 parole Sinceramente: non ne possiamo più di sentire un ministro dell’Interno che dice «nessuna clemenza» per i delinquenti che rovinano una partita di calcio. Ci sentiamo presi in giro. Sono anni che, periodicamente, siamo qui a commentare incidenti aggressioni e ferimenti prima, durante e dopo le partite. Abbiamo visto di tutto: tifosi ammazzati con una coltellata, capi ultrà che intimano ai giocatori di non giocare un derby, motorini lanciati dal secondo anello. E i ministri dell’Interno e i capi di governo che dicono: adesso basta, nessuna clemenza. Poi, tutto resta come prima. Altrettanto sinceramente: non ne possiamo più neppure di sentire ministri dell’Interno che si complimentano con le forze dell’ordine per aver «subito identificato e fermato» i delinquenti che hanno tirato le bombe carta dentro lo stadio. Eh no, signor ministro, anche qui ci sta prendendo in giro. Qualsiasi buon padre di famiglia sia andato almeno una volta allo stadio, sa che ai tornelli viene fermato, controllato, perquisito: e se ha una bottiglietta di acqua minerale, gli viene ordinato di togliere il tappo. Poi però i cosiddetti ultras possono portare dentro di tutto, compreso il materiale per fabbricare le bombe carta. Ecco perché ci sentiamo presi in giro anche per i complimenti alle forze dell’ordine che individuano e fermano: bisogna pensarci prima, signor ministro. Le «forze dell’ordine», come le chiama lei, devono perquisire i cosiddetti ultrà come intrepidamente perquisiscono i nonni. È passato un anno dalla finale di Coppa Italia che aveva fatto indignare il presidente del Consiglio. Era presente allo stadio e aveva assistito con i propri bambini allo strazio della trattativa fra un soggetto chiamato Genny ’a carogna e la polizia. Aveva dunque promesso interventi durissimi e immediati. Siamo ancora qui, come venti o trenta anni fa. E a proposito di trent’anni fa: nel 1985 ci fu la tragedia dell’Heysel, una strage provocata dai cosiddetti holligans. La Gran Bretagna decise che bisognava fare sul serio, e sul serio fece. Da allora, in Inghilterra non è più successo nulla. In Italia, invece, solo il nuovo stadio della Juventus ha provato a replicare il modello inglese. Per il resto, tutto è ancora come ai tempi di quel derby romano del 1979, quando un tifoso venne accoppato da un razzo sparato dalla gradinata opposta. Questo è dunque un fronte: l’ipocrisia delle società di calcio e della politica, capaci solo di esprimere il consueto «sdegno». Un altro fronte riguarda la domanda, che prima o poi dovremo pur porci in profondità, sull’immensa quantità di rabbia, di rancore e di violenza che si è riversata sul mondo del calcio. Non solo su quello professionistico. Chiunque abbia figli che giocano nelle giovanili sa di che cosa sto parlando. Le partite dei ragazzi e dei bambini sono ormai diventate momenti in cui genitori e ahimè spesso anche gli allenatori e i dirigenti sfogano tutto l’irrisolto che si portano dentro. Ieri ho visto una partita di uno dei miei figli e a un certo punto è entrato un ragazzo di colore. Uno degli avversari gli ha detto: «Sei venuto in Italia a rompere i c...?». L’arbitro per fortuna ha sentito e l’ha espulso. Ma mentre l’espulso, uscendo dal campo, gridava al ragazzo di colore «ci vediamo fuori», il suo allenatore, invece di zittirlo, insultava l’arbitro per aver tirato fuori il cartellino rosso per così poco. Tutto questo mentre sugli spalti i genitori delle due squadre – che avevano appena deprecato gli incidenti del derby di Torino – se ne dicevano di tutti i colori. Ecco, credo che dovremo anche chiederci come mai il calcio sia diventato il ricettacolo di tanta violenza repressa. I tifosi che gridano «uccideteli» in serie A sono immersi nello stesso odio che fa litigare anche sui campi dove sgambettano i pulcini. Insomma i fronti sono due: la politica e le società
Anonymous
Quella era una fine d’anno speciale, dopotutto, e le speranze e i timori per il futuro di ognuno sembravano affiorare in quei pochi minuti che precedevano l’arrivo del nuovo secolo. Tenendosi per mano, gli ospiti si disposero a cerchio, pronti a intonare le dolci note di Auld Lang Syne, I bei tempi andati, come voleva un’antica tradizione britannica diffusasi anche nel Nuovo Mondo. Le spalle all’ingresso del salone, come gli altri emozionata e incerta per il domani, Camille prese posto tra i Campbell. «Sarà un fantastico secolo il 1900, Camille, e tu lo percorrerai a testa alta, mia cara» le disse Agnes sorridendole. «Due minuti, signori, due minuti!» urlò il giudice Harris. Le voci si alzarono festose, per poi morire di nuovo. Il grande cerchio era ora immobile, in silenziosa attesa. Anche i camerieri avevano interrotto il loro lavoro e l’orchestra taceva. «Trenta secondi al nuovo secolo!» «Venti secondi!» Camille all’improvviso sentì la testa girarle e il cuore battere impetuoso contro il petto: Mr Campbell, alla sua destra, aveva lasciato che un’altra mano, più forte e più grande, stringesse la sua. Non capiva di chi fosse quella mano, perché Agnes sorridesse, perché tutti, in quel cerchio festoso, la guardassero. O meglio, lo capiva perfettamente ma temeva che se si fosse girata, se avesse guardato l’uomo che aveva preso il posto di Mr Campbell nel cerchio, quel sogno si sarebbe interrotto. «Cinque secondi al nuovo secolo!» sentenziò il giudice Harris. «Quattro, tre, due, uno! Buon anno!» esclamarono tutti, all’unisono. L’orchestra intonò le prime battute di Auld Lang Syne e gli ospiti incominciarono a cantare. Camille si girò con lentezza infinita verso l’uomo che stringeva con forza e dolcezza e speranza la sua mano. L’uomo che la stava guardando sorridente, felice come un ragazzino. Era fradicio e aveva gli occhi lucidi. E cantava. Camille non disse nulla e si unì al coro, mentre lacrime di gioia le scivolavano sul viso. *** Quando la musica terminò il cerchio non si ruppe subito. Tutti rimasero immobili a osservare la scena che si svolgeva davanti a loro. Frank Raleigh, il solito anticonformista, gocciolante e vestito come un mandriano, se ne stava in ginocchio davanti a Miss Brontee con in mano un solitario dalle notevoli dimensioni. Nessuno ebbe dubbi su cosa le stesse chiedendo. Miss Brontee lo fissava a bocca aperta, gli occhi tondi di sorpresa, il petto che si alzava e si abbassava troppo in fretta, il volto pallido. «Allora, Miss Brontee, dite di sì a quel poveretto prima che si prenda una polmonite!» esclamò burbera un’anziana signora, rompendo la tensione di quel momento. Tutti scoppiarono a ridere. «Sì, Miss Brontee, ditegli di sì. Almeno metterà la testa a posto!» «Ti prego, Camille, dimmi di sì» implorò Frank in un sussurro. Camille deglutì, si guardò intorno come per chiedere consiglio ai presenti, incontrò lo sguardo di Agnes e di Mr Campbell, che insieme assentirono. Poi guardò Raleigh e semplicemente rispose: «Sì!» La sala esplose in una girandola di congratulazioni, poi altro champagne fu stappato e i brindisi al nuovo secolo e ai promessi sposi si rincorsero. Mr Raleigh, indifferente al centinaio di persone che li stava fissando, si era intanto rialzato e tenendo Miss Brontee stretta tra le braccia le mormorava parole che tutti i presenti avrebbero voluto udire ma che giunsero solo al cuore di Camille.
Viviana Giorgi (Un amore di fine secolo)
Oggi, 31 dicembre 2023, ho scelto un buon proposito da realizzare nell'anno che verrà .... No, non si tratta di qualcosa di irrealizzabile come mettersi a dieta e andare in palestra
Ebook Autori
Se non è un mercato capitalista, in cosa entriamo, buon Dio, quando andiamo su amazon.com ?” Mi ha chiesto qualche anno fa uno studente all’Università del Texas. “Una specie di feudo digitale” ho risposto d’istinto. “Un feudo post-capitalista, le cui radici storiche rimangono nell’Europa feudale, ma la cui integrità è oggi mantenuta da un tipo di capitale futuristico e distopico basato sul cloud
Yanis Varoufakis (Tecnofeudalesimo: Cosa ha ucciso il capitalismo (Italian Edition))
Con tutto il paese blindato in casa per fermare l'epidemia, quelle tre ridevano mentre aspettavano di fare la spesa. Una addirittura a un certo punto ha tirato fuori il telefonino e ha detto: "Facciamoci un selfie". Non so come siano riuscite a stare nella foto senza violare il distanziamento, ma era comunque una cosa fastidiosa, al punto che si è avvicinato un carabiniere, uno di quegli appuntati giovanissimi al primo anno di servizio, e ha chiesto loro cosa stessero facendo. Mi aspettavo che smettessero e si scusassero, per rispetto della divisa e della circostanza, invece una ha risposto: "Ci facciamo una foto rispettando il distanziamento, c'è qualcosa che lo vieta?". L'arroganza di quella risposta non me la dimenticherò mai. Il carabiniere, per quanto giovanissimo, si è comportato da signore e non ha perso le staffe. "Non c'è un divieto, ma vi sembra il caso di farvi i selfie, con i camion che portano via i morti." [...] "Cosa c'entrano i morti con la nostra foto? Le norme sono contro il contagio, non contro il buon umore.
Michela Murgia (Tre ciotole: Rituali per un anno di crisi)