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La tecnologia venti o trent'anni fa era già potente, non c'é dubbio, ma non era una parte così preponderante della psicologia, non aveva ancora la capacità di soddisfare immediatamente ogni pulsione, dopo averla stimolata. Lasciava a ogni singolo individuo un suo stile e una riserva di libertà che é stata totalmente dissipata, come se non avesse nessun valore. Era normalissimo assentarsi, non dare notizie di sé per giorni o per settimane. E dunque, come é logico supporre, le persone si pensavano con maggiore intensità, con maggiore pazienza, e questo pensarsi poteva essere realmente percepito, e ricambiato. C'era tutto il tempo necessario a dipingere un fantasma sulle pareti del cuore, a ritoccarne i contorni e le sfumature fino al momento in cui prendeva una vita propria, non era più un'immaginazione arbitraria ma una presenza e un ospite da onorare. Ogni atto di comunicazione, anche il più frivolo, possedeva una quantità variabile di difficoltà e memorabilità.
Che qualcuno ti rispondesse al telefono, che fosse lì ad aspettare la tua chiamata, oppure che non se la aspettasse affatto, tutto questo era già di per sé un contenuto umano, un veicolo di erotismo o di amicizia o di violenza, e la stessa fila che avevi davanti alla cabina, con la pila di gettoni intiepidita nel cavo della mano, poteva decidere il senso di molte parole, farle fermentare nella testa prima che venissero pronunciate.
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I viaggi in treno erano così lunghi che nella forzata intimità degli scompartimenti a sei posti, coi loro braccioli muniti di portacenere stracolmi di mozziconi, una civiltà narrativa secolare celebrava i suoi ultimi fasti, come solo poteva accadere tra sconosciuti che non si sarebbero più rivisti, e che quasi mai si scambiavano il nome.
Alcune di quelle storie erano destinate a insediarsi per sempre in chi le ascoltava, come indistruttibili pietre di paragone, o fili d'Arianna, o farmaci per ogni tipo di incertezza.
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Emanuele Trevi (Sogni e favole. Un apprendistato)