Torino Quotes

We've searched our database for all the quotes and captions related to Torino. Here they are! All 34 of them:

Who else, when we stepped to the line in Torino, was going to be so mentally tough? Who else would have proven to himself that he could do anything he set out to do? In a sport that was always one tick away from being entirely out of control, who else would have done everything he could to take charge of the things he could-and should- control to put himself in position to excel?
Apolo Anton Ohno
Ma ne avevo abbastanza e capivo che ormai tutta quanta Torino e il mestiere e le strade e le pietre di casa non bastavano piu a darmi pace.
Cesare Pavese (Il compagno)
La Torino, la începutul crizei sale, Nietzsche se năpustea fără întrerupere către oglindă, se privea, se întorcea, se privea în ea din nou. în trenul care-l ducea la Basel, singurul lucru pe care-l cerea stăruitor era tot o oglindă. Numai ştia cine era, se căuta, şi el, cel atît de legat de ideea păstrării propriei identităţi, atît de avid de sine, nu maidispunea, ca să se regăsească, decît de cel mai grosolan, de cel mai jalnic dintre mijloace.
Emil M. Cioran (The Trouble With Being Born)
M'accorsi, camminando, che ripensavo a quella sera diciassette anni prima, quando avevo lasciato Torino, quando avevo deciso che una persona può amarne un'altra più di sé, eppure io stessa sapevo bene che volevo soltanto uscir fuori, metter piede nel mondo, e mi occorreva quella scusa, quel pretesto, per fare il passo. La sciocchezza, l'allegra incoscienza di Guido quando aveva creduto di portarmi con sé e mantenermi - sapevo già tutto fin dal principio. Lo lasciai fare, provare, dibattersi. L'aiutavo persino, uscivo prima dal lavoro per tenergli compagnia. Quello il mio broncio e malvolere, secondo Morelli. Avevo riso e fatto ridere tre mesi il mio Guido: era servito a qualcosa? Nemmeno di piantarmi lui era stato capace. Non si può amare un altro più di se stessi. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno.
Cesare Pavese (Among Women Only)
As with all Torino stories, there was to be a final, weird, twist to this tale. In 2000 Torino appointed a new president. He was a life-long Torino fan and had worked as a spokesman for FIAT. His name? Attilio Romero. The same Attilio ‘Tilli’ Romero who had run over his idol – Gigi Meroni – in 1967. The club was now run by a man who had killed one of its most famous players, albeit by accident. This bizarre fact did not pass without comment. Some fans, unhappy at the performance of the team, took to shouting ‘murderer’ at Romero.
John Foot (Calcio: A History of Italian Football)
Cosa chiedono questi imprenditori all’Italia? Per esempio Loris DeGioanni, originario di Cuneo, laureato al Politecnico di Torino, che ha già creato due start up in California: «Facilitare lo scambio dei talenti. Abbiamo bisogno di attirare gli stranieri ad investire e lavorare in Italia, favorendo il loro accesso, e nello stesso tempo dovremmo avere la possibilità di far venire gli italiani qui senza troppi problemi». E’ un ritornello che Renzi sente ripetere spesso: in Italia ci sono i migliori ingegneri del mondo, più creativi e meno costosi. Perciò queste start up aprono in Calfornia, e poi assumono i dipendenti in Italia per farli lavorare in remoto. E’ una pratica che va aiutata.
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Italia e Germania, riparte il dialogo Al vertice voluto dal Quirinale gli analisti guardano oltre gli stereotipi “Da soli non contiamo nulla nel mondo, smettiamo di accusarci a vicenda” 2.715 Erasmus È questo il numero degli universitari italiani che nel 2012-2013 hanno studiato in Germania. Gli studenti tedeschi in Italia invece sono stati 1.842 460 parole Difficile parlarsi, quando la più grave crisi da un secolo ha polarizzato l’Europa e spinto Italia e Germania su fronti opposti. Nella patria di Angela Merkel, purtroppo, si distingue spesso tra «Paesi debitori» e «creditori» o ci si ossessiona per i «compiti a casa» e l’«azzardo morale». E la retorica sul pigro Sudeuropa fatica a spegnersi. Ma anche in Italia un populismo pigro ha ispirato campagne elettorali con slogan che propagandavano «più Italia, meno Germania». E la tentazione di addossare colpe antiche che fanno da zavorra alla nostra economia all’austerità targata Berlino, è sempre dietro l’angolo. Inevitabile, dunque, che all’«Italian-German High Level Dialogue» organizzato su impulso del Quirinale, con il patrocinio della Farnesina e il coordinamento dell’Ispi, i toni non siano sempre stati concilianti. Ma invece di continuare a dividersi sul debito pubblico o sul surplus commerciale, i banchieri, gli imprenditori, gli economisti, i diplomatici, gli analisti e i (pochi) politici convenuti a Torino hanno preferito spesso partire dai punti in comune per ritrovare la via del dialogo. Un’opportunità importante che secondo il presidente di Generali Gabriele Galateri di Genola «dovrebbe essere arricchita con un coinvolgimento maggiore della società civile. La verità è che quando le persone si conoscono e si confrontano, tante incomprensioni vengono superate». E forse, il primo sforzo, ha sostenuto l’ambasciatore Reinhard Schäfers, potrebbe essere quello di rinunciare a termini che in Italia hanno spesso un sapore paternalistico come i «compiti a casa». Il secondo sforzo, ha aggiunto, ha già un aggancio all’attualità. Perché le due maggiori potenze manifatturiere in Europa «non possono definire insieme le priorità» per i piani di investimenti europei, a partire da quello targato Juncker? Anche per Klaus-Peter Roehler, amministratore delegato di Allianz, il dialogo bilaterale «può dare importanti impulsi alla crescita». Il presidente di Unicredit e del gruppo Springer, Giuseppe Vita, citando un argomento prediletto da Merkel, ha ricordato la base di ogni ragionamento sull’opportunità di mettere insieme le forze: «l’Italia e la Germania sono realtà assolutamente trascurabili, nel panorama mondiale». Solo in una cornice europea possono negoziare in modo credibile con il resto del mondo. C’è anche un problema di comunicazione, ovviamente. E se «in Germania c’è una percezione troppo scarsa delle riforme importanti che l’Italia sta facendo», secondo il presidente dell’Autorità per il controllo delle leggi, Johannes Ludewig, il membro del board della Bundesbank, Carl-Ludwig Thiele, ha lamentato l’informazione inesatta sulla Germania che molti giornali italiani diffondono. Soprattutto, ha esclamato, «nessun Paese è amato come l’Italia». Se questo non è un buon punto di partenza. [t. mas.]
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I nostri cinque peccati che scoraggiano ricerca e innovazione Dalla politica all’università, il sistema italiano continua a ostacolare l’economia della conoscenza Start-up al palo Dai laboratori al business: in Italia è ancora difficile riuscire a trasferire le scoperte teoriche nell’industria Riccardo Viale | 831 parole Da quando è stato introdotto il concetto di economia e di società della conoscenza, come importante elemento delle politiche pubbliche, si è iniziato ad analizzare l’insieme delle condizioni di contorno - le «framework condition» - in grado di stimolare o di ostacolare lo sviluppo di questo modello. La strategia di Lisbona del 2000 aveva lo scopo di rendere l’Europa l’area più competitiva a livello mondiale proprio come economia e società della conoscenza. Oggi abbiamo i risultati: in media c’è stato un arretramento, secondo la maggior parte degli indicatori, rispetto ai principali concorrenti internazionali. E l’Italia? Come si può immaginare, non ha realizzato alcun serio passo in avanti: non solo per le condizioni dirette (come finanziamento alla ricerca, numero di ricercatori e di brevetti, indici bibliometrici o rapporto università-impresa), ma per le «framework conditions». Ma più che dare dati vorrei riferirmi ad una serie di situazioni tipiche, ragionando con il modello degli incentivi dal macro al micro. Per mostrare come la dinamica sociale ed economica italiana sia intrisa di incentivi negativi. La logica del breve termine Innanzitutto, a livello di sistema politico e di governo nazionale e regionale, gli obiettivi dell’economia e della società della conoscenza sono in genere percepiti di medio e lungo termine. Di conseguenza, in un Paese che vive lo «shortermismo» della logica emergenziale, nulla è più marginale del sistema della Ricerca&Sviluppo. Questo «bias», d’altra parte, non è solo italiano, se si considera la recente scelta di Juncker di indebolire il fondo «Horizon 2020» per potenziare quello di stimolo immediato all’economia. Seconda tipologia. Le università italiane sono fuori da tutte le graduatorie internazionali. Anche le migliori, come il Politecnico di Milano e Torino o la Bocconi, sono a metà classifica. Si sa che uno degli strumenti prioritari per stimolare l’eccellenza e la diversificazione accademica è la «premialità economica» dei migliori atenei, secondo un sistema simile a quello del «Rae» britannico: lasciando da parte il problema del mediocre sistema italiano della valutazione, mentre in Gran Bretagna l’incentivo economico arriva a un terzo del finanziamento pubblico, da noi si ferma a molto meno (anche se dai tempi del ministro Moratti si vede un certo progresso). Non esiste, quindi, un sufficiente effetto incentivante di tipo meritocratico sulla produzione di conoscenza. Terza tipologia. Anni fa, in Lombardia, una multinazionale della telefonia aveva proposto un centro di ricerca avanzato. Ciò avrebbe consentito una collaborazione con i centri di ricerca già presenti nel territorio, in primis il Politecnico di Milano. Cosa successe dopo? Una lista di problemi, ostacoli ed incoerenze tipiche della pubblica amministrazione. Tutto questo era in contrasto con il programma dell’azienda, che decise di trasferire il progetto in un altro Paese. Quarta tipologia. Spesso si parla di sostenere le nuove idee per garantire la nascita di start-up ed imprese innovative. Ma quale incentivo può avere un ingegnere o un biochimico a creare una «newcom», quando è quasi impossibile trovare il «seed money» (quello per le fasi iniziali) nelle banche ed è quasi inesistente il capitale di rischio del venture capital, mentre non si ha la possibilità di valorizzare finanziariamente una start-up a livello di Borsa, dato che manca, in Italia ma anche in Europa, un analogo del Nasdaq? La crisi del fund raising Infine - quinta ed ultima (tra le molte) tipologia di disincentivi - è la capacità di «fund raising» per la ricerca dei
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quando l’isis «insegna» Distruggendo i reperti di Mosul e Nimrud i terroristi hanno paradossalmente dimostrato di capire cosa rappresentino e quanto siano preziosi Luigi Giaccone | 339 parole Dobbiamo essere «molto riconoscenti» verso quei militanti dell’Isis che hanno distrutto reperti assiri a Mosul e a Nimrud, perché ci hanno dimostrato di aver capito perfettamente ciò che quei resti testimoniano. Afferma Domenico Quirico su questo giornale: «La storia è il principale avversario dello Stato totalitario, di ogni Stato totalitario». Studiare la storia, e soprattutto quei periodi che sembrano più lontani da noi, significa confrontarsi con ciò che è diverso da noi, uscire dal guscio asfittico in cui siamo soliti muoverci e che vediamo come unico universo possibile. Quest’avventura, che ci apre alla conoscenza di mondi nuovi e di culture altre, ha una straordinaria valenza formativa, in quanto palestra di democrazia e di educazione allo spirito critico e al confronto delle idee, ma proprio per questo costituisce una minaccia per qualunque forma di pensiero unico, di qualunque matrice. Tutti i regimi autoritari si sono misurati con questa pericolosa infezione. In alcuni casi si sono limitati a distruggere ogni testimonianza del passato, a far tabula rasa di tutto ciò che potesse minacciare l’unica ideologia ammessa: oggi l’Isis in Iraq, ieri i talebani in Afghanistan, i khmer rossi in Cambogia, la rivoluzione culturale in Cina. Le dittature europee del Novecento hanno invece trovato un sistema più subdolo, strumentalizzando il passato ed estrapolando figure e momenti esemplari, da proporre come precursori per giustificare il proprio operato; hanno disinfettato la storia dal virus eversivo dell’alterità per omologarla alle proprie ideologie, appiattendo il passato sul presente: così è stato per l’impero romano con il fascismo, la società spartana con il nazismo, l’icona di Spartaco con i regimi comunisti. Che lo studio della storia, anche di quella meno recente, sia fondamentale, l’Isis e i vari Stati autoritari hanno dimostrato di averlo capito: perché noi l’abbiamo dimenticato? Insegnante al Liceo Cavour di Torino
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Presi in giro dalla doppia ipocrisia di calcio e politica Michele Brambilla | 723 parole Sinceramente: non ne possiamo più di sentire un ministro dell’Interno che dice «nessuna clemenza» per i delinquenti che rovinano una partita di calcio. Ci sentiamo presi in giro. Sono anni che, periodicamente, siamo qui a commentare incidenti aggressioni e ferimenti prima, durante e dopo le partite. Abbiamo visto di tutto: tifosi ammazzati con una coltellata, capi ultrà che intimano ai giocatori di non giocare un derby, motorini lanciati dal secondo anello. E i ministri dell’Interno e i capi di governo che dicono: adesso basta, nessuna clemenza. Poi, tutto resta come prima. Altrettanto sinceramente: non ne possiamo più neppure di sentire ministri dell’Interno che si complimentano con le forze dell’ordine per aver «subito identificato e fermato» i delinquenti che hanno tirato le bombe carta dentro lo stadio. Eh no, signor ministro, anche qui ci sta prendendo in giro. Qualsiasi buon padre di famiglia sia andato almeno una volta allo stadio, sa che ai tornelli viene fermato, controllato, perquisito: e se ha una bottiglietta di acqua minerale, gli viene ordinato di togliere il tappo. Poi però i cosiddetti ultras possono portare dentro di tutto, compreso il materiale per fabbricare le bombe carta. Ecco perché ci sentiamo presi in giro anche per i complimenti alle forze dell’ordine che individuano e fermano: bisogna pensarci prima, signor ministro. Le «forze dell’ordine», come le chiama lei, devono perquisire i cosiddetti ultrà come intrepidamente perquisiscono i nonni. È passato un anno dalla finale di Coppa Italia che aveva fatto indignare il presidente del Consiglio. Era presente allo stadio e aveva assistito con i propri bambini allo strazio della trattativa fra un soggetto chiamato Genny ’a carogna e la polizia. Aveva dunque promesso interventi durissimi e immediati. Siamo ancora qui, come venti o trenta anni fa. E a proposito di trent’anni fa: nel 1985 ci fu la tragedia dell’Heysel, una strage provocata dai cosiddetti holligans. La Gran Bretagna decise che bisognava fare sul serio, e sul serio fece. Da allora, in Inghilterra non è più successo nulla. In Italia, invece, solo il nuovo stadio della Juventus ha provato a replicare il modello inglese. Per il resto, tutto è ancora come ai tempi di quel derby romano del 1979, quando un tifoso venne accoppato da un razzo sparato dalla gradinata opposta. Questo è dunque un fronte: l’ipocrisia delle società di calcio e della politica, capaci solo di esprimere il consueto «sdegno». Un altro fronte riguarda la domanda, che prima o poi dovremo pur porci in profondità, sull’immensa quantità di rabbia, di rancore e di violenza che si è riversata sul mondo del calcio. Non solo su quello professionistico. Chiunque abbia figli che giocano nelle giovanili sa di che cosa sto parlando. Le partite dei ragazzi e dei bambini sono ormai diventate momenti in cui genitori e ahimè spesso anche gli allenatori e i dirigenti sfogano tutto l’irrisolto che si portano dentro. Ieri ho visto una partita di uno dei miei figli e a un certo punto è entrato un ragazzo di colore. Uno degli avversari gli ha detto: «Sei venuto in Italia a rompere i c...?». L’arbitro per fortuna ha sentito e l’ha espulso. Ma mentre l’espulso, uscendo dal campo, gridava al ragazzo di colore «ci vediamo fuori», il suo allenatore, invece di zittirlo, insultava l’arbitro per aver tirato fuori il cartellino rosso per così poco. Tutto questo mentre sugli spalti i genitori delle due squadre – che avevano appena deprecato gli incidenti del derby di Torino – se ne dicevano di tutti i colori. Ecco, credo che dovremo anche chiederci come mai il calcio sia diventato il ricettacolo di tanta violenza repressa. I tifosi che gridano «uccideteli» in serie A sono immersi nello stesso odio che fa litigare anche sui campi dove sgambettano i pulcini. Insomma i fronti sono due: la politica e le società
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Stessa sorte per le squadre di calcio: la «Juventus» cambia il nome in quello di «Stalin», il Torino in quello di «Lenin» e il «Milan» in quello di «Carlo Marx». Ai comunisti italiani («Togliatti», «Secchia» e «Longo») sono intitolate invece le squadre minori: Ma poiché non è ammissibile, né concepibile, che la Stalin si faccia battere dalla Togliatti, o la Lenin dalla Secchia, così avviene che la Stalin, la Lenin e la Marx vincono sempre: e se qualche imprudente giocatore della Longo e della Togliatti riesce per errore o per distrazione a infilare un pallone nella rete della Stalin, o della Lenin, il meno che gli capita è d’esser fucilato sul campo[46]. Il calcio dunque come metafora della servile sottomissione del popolo italiano (in particolare di quello comunista) alla dittatura stalinista.
Stefano Pivato (Favole e politica: Pinocchio, Cappuccetto rosso e la Guerra fredda)
Andè, mi domanda, ma tu dove sei? Non afferro subito. Che dici, Totò? Dove sei?, ripete lui. Lara mi guarda strano, non la capisce una domanda del genere, non lo sa che da anni, nei paesi della Sicilia, si stanno disegnando nuove geografie dell'Italia e del mondo, che i paesani adesso sono costretti a mandare giù non più - o non solo - i prefissi e i cap di Milano Torino Roma, le città dei primi emigrati, ma anche quelli di Brembate di Sopra, Cittadella, Bolzano, paesi che fino a vent'anni fa nessuno conosceva, e a ragione, e che adesso si sono trasformati negli eldorado dei nuovi migranti. E a chi sta fuori la domanda va fatta, l'interlocutore può sempre avere notizie di prima mano su una qualche zona della Bassa padana dove le graduatorie dei bidelli sono ancora accessibili, non come a Milano Torino Roma, o magari sa qual è la situazione nei provveditorati trentini nelle fabbriche venete nei supermercati friulani.
Giuseppe Rizzo
perché aveva scritto che alla stazione di Torino "due treni diretti s’incrociavano: l’uno in partenza, e l’altro in arrivo". La sua descrizione pareva stolidamente ridondante. Ma, a ripensarci bene, l’annotazione non è così ridondante come appare a prima vista. Dov’è che due treni che s’incrociano non ripartono entrambi dopo essere arrivati?
Umberto Eco (Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures, 1992-1993)
[...] alla venerabile biblioteca dell'Istituo Chimico dell'Università di Torino, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io. È da pensare che la Direzione seguisse il savio principio secondo cui è bene scoraggiare le arti e le scienze: solo chi fosse stato spinto da un assoluto bisogno, o da una passione travolgente, si sarebbe sottoposto di buon animo alle prove di abnegazione che venivano richieste per consultare i volumi. L'orario era breve ed irrazionale; l'illuminazione scarsa; gli indici in disordine; d'inverno, nessun riscaldamento; non sedie, ma sgabelli metallici scomodi e rumorosi; e finalmente, il bibliotecario era un tanghero incompetente, insolente e di una bruttezza invereconda, messo sulla soglia per atterrire col suo aspetto e col suo latrato i pretendenti all'ingresso.
Primo Levi (The Periodic Table)
Qualche anno fa il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca lanciò alcuni «distretti tecnologici» orientati a emulare a livello locale le condizioni del successo di Silicon Valley e di Israele: collaborazione stretta nell’arco di cinquanta chilometri tra università, imprese innovative e venture capitalists, con lo Stato/Regione fornitore del seed capital del distretto. Il distretto pilota «Torino wireless», focalizzato sulla tecnologia cellulare, protagonisti il Politecnico di Torino, la regione e alcune imprese del calibro di Telecom, Motorola e ST Microelectronics, diede ottimi risultati; così pure il distretto tecnologico dei materiali avanzati di Napoli.
Roger Abravanel (Meritocrazia: Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto)
Atatürk Bulvarı üzerinde; Ankara'nın meydanlarına yapılan yolculukta, uğranılacak diğe önemli noktam ise Zafer Meydanı'ydı. mevcut durumda kişilerin sadece Zafer Çarşısı ve üzerinde bulunan taksilerle andığı boşluk aslında bir başka değerle meydanmış Ankara'nın şanlı tarihinde. Yolun ortasında bulunan heykel ancak önüne çelenkler konduğunda benim dikkatimi çekmişti ilk olarak. Gönül isterdi ki; bu tunç heykelin, Milli Eğitim Bakanlığı tarafından açılan bir yarışmayı kazanan İtalyan sanatçı Pietro Canonica tarafından İtalya'nın Torino kentinde yapıldığını ve 24 Kasım 1927'de açıldığını heykelin önünde bulundurulacak bil bilgilendirme notundan öğreneyim.
Timur Özkan
Al secondo appuntamento Fulvia gli disse che scriveva benissimo. «Sono... discreto». «Meravigliosamente, ti dico. Sai che farò la prima volta che andrò a Torino? Comprerò un cofanetto per conservarci le tue lettere. Le conserverò tutte e mai nessuno le vedrà. Forse le mie nipoti, quando avranno questa mia età». E lui non poté dir niente, oppresso dall'ombra della terribile possibilità che le nipoti di Fulvia non fossero anche le sue.
Beppe Fenoglio (Una questione privata)
Altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l'avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate. Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e squadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi, 'al pian dii babi', al livello di rospi. Si ripeté più volte la frase, con una specie di acre compiacimento: sapere, e mai dimenticare, di essere 'al pian di babii'; nient'altro, in fondo, pretendeva da te la città, che poi, una volta fatta la burbera tara del creato, stabilito il peso netto tuo e dell'universo, ti spalancava, se volevi profittarne, i suoi infiniti, deliranti spacchi prospettici.
Carlo Fruttero (La donna della domenica)
You still haven't told me how you came to be in that airport, I said to Madison as we lay in bed one evening. There's lots of things I haven't told you, she replied. If people were to tell other people everything about themselves, we'd live in a dull world. If knowing everything about a person were the be-all and end-all of human interaction, she said, we'd just carry memory-sticks around and plug them into one another when we met. We could have little ports, slits on our sides, like extra mouths or ears or sex organs, and we'd slip these sticks in and upload, instead of talking or screwing or whatever. Would you like that, Mr Anthropologist? No, I told her; I don't want to know everything about you. This was true: I hadn't asked her very much about herself at all her family, her background, any of that stuff not back in Budapest when we'd first met, and not since, either. Our liaison had been based throughout on minimum exchange of information. I don't want to know everything about you, I repeated. I just want to know what you were doing in Turin. I wasn't in Turin, she said again. Torino-Caselle, I replied; whatever. Why? she asked. I'm intrigued, I told her. What, professionally? she goaded me. That's right, I said: professionally. Well then you'll have to pay me, she said.
Tom McCarthy (Satin Island)
In quei giorni non moriva soltanto l'autunno. A Torino, sopra un micchio di macerie, avevo visto un grosso topo, tranquillo nel sole. Tanto tranquilli che ami lio avvicinarsi non aveva mosso il capo né trasalito. Era ritto sulle zampe e mi guardava. Degli uomini non aveva più paura. Veniva l'inverno e io avevo paura. [...] Non erano i disagi, non le rovine, forse nemmeno la minaccia della morte dal cielo; bensì il segreto finalmente afferrato che potevano esistere dolci colline, una città sfumata di nebbie, un indomani compiaciuto, e in tutti gli istinti accadere a due passi le cose bestiali di cui si bisbigliava. La città si era fatta più selvaggia dei miei boschi. Quella guerra in cui vivevo rifugiato, convinto di averla accettata, di essermene fatta una pace scontrosa, inferociva, mordeva più a fondo, giungeva ai nervi e nel cervello.
Cesare Pavese (La casa in collina)
You know what I’m gonna do? A lot of obscene and illegal stuff, I’d wager. He said, I’m gonna fix this Lincoln up and drive it back to Leechfield. My senior year ride. No more Mama’s Torino. Like you will, I said. Like I won’t. My brain was starting to melt and soften again around an old image of Daddy from childhood. How he’d come home at dawn in his denim shirt, and I’d be the only one up, peering out the back drapes till he walked across the patio. Lots of times, he’d come in and lie on his stomach on the bare boards of our yet-to-be-carpeted floor, and I’d walk barefoot along his spine. I’d have to hold on to the bookcase to keep from sliding off the sloping muscles of his back, but I’d work my toes under his scapular bones, and he’d ask, You feel my wings growing under there, Pokey? And I’d allege that I did. He claimed it always helped him get to sleep in the daylight. It was maybe the only time I felt like a contributor to the household, somehow useful in our small economy.
Mary Karr (Lit)
The Torino girl was Catherine Barkley,
A.E. Hotchner (Papa Hemingway: A Personal Memoir)
Among connoisseurs of chocolate, Cioccolata Savoia was famous. From Torino to Amalfi, experts lauded the family's legendary chocolatiers for fusing the smooth, delicate flavor of Criollo chocolate with Sorrentino and Amalfitano lemons.
Jan Moran (The Chocolatier)
Serving chocolate outside?" "Ice cream in the summer. Cioccolata calda in the winter. And bicerin." "Bicerin? That's only served in Torino." "Why not? Is there a law?" "Of course not, but this is Amalfi." "The tourists will love it." She turned around. "And I told you I don't want that grouch in here." "Caffè napoletano," Lauro muttered as he straightened a table. "And cappuccino freddo in the summer." "What?" "I should go. Let me know if you need more help in the kitchen." Wincing at his choice of words, Lauro hurried from the shop before she could respond. Glancing over his shoulder, he saw her watching him. Her lovely lips parted in surprise.
Jan Moran (The Chocolatier)
Although fear and anxiety are the major emotional reactions by Whites as they enter a discourse on race, many other nested or embedded feelings make their presence felt as well (Sue et al., 2010; Sue, Torino, et al., 2009; Tatum, 1992; Todd & Abrams, 2011). Unless these are acknowledged and deconstructed, they will continue to hold an invisible power over Whites, making it difficult to gain insight into their psychological conflicts and preventing them from freely discussing issues of race, racism, and Whiteness (Tatum, 1992, 2002).
Derald Wing Sue (Race Talk and the Conspiracy of Silence: Understanding and Facilitating Difficult Dialogues on Race)
Our research suggests that successful race talk must allow for the free expression of nested and impacted feelings, acknowledge their legitimacy and importance in dialogues, and be deconstructed so their meanings are made clear (Sue, 2013; Sue et al., 2010; Sue, Torino, et al., 2009).
Derald Wing Sue (Race Talk and the Conspiracy of Silence: Understanding and Facilitating Difficult Dialogues on Race)
What did you see?” she asked gently. His brow furrowed, as if he could not understand the question. Then his eyes turned to the paper on which he'd been writing. They went to the quill that he seemed surprised to see in his hand. When he turned to look at her again, fresh tears spilled from Michel de Nostredame's eyes. “Death,” he said. “I saw death.
J. Anthony Torino (The Manifest: The Vatican is secretly moving their most treasured possessions)
MN4, discovered late in 2004 and recently named Apophis, the Greek name for the Egyptian God Apep –the destroyer. At one point, the probability of Apophis striking the Earth on 13 April 2029 was thought to be as high as 1 in 37. Now, to everyone’s relief, those odds have increased to 1 in 8,000. Again, these may sound very long odds, but they are actually only 80 times greater than those offered during summer 2001 for England beating Germany 5–1 at football. A few years ago, scientists came up with an index –known as the Torino Scale –to measure the impact threat, and so far Apophis is the first object to register and sustain a value greater than zero. At present it scores a 1 on the scale –defined as ‘an event meriting careful monitoring’. The object is the focus of considerable attention as efforts continue to better constrain its orbit, and it is perfectly possible –as we find out more –that it could rise to 1 on the Torino Scale, becoming an ‘event meriting concern’. It is very unlikely, however, to go any higher, and let’s hope that many years elapse before we encounter the first category 10 event –defined as ‘a certain collision with global consequences’.
Bill McGuire (Global Catastrophes: A Very Short Introduction (Very Short Introductions;Very Short Introductions;Very Short Introductions))
Torino l'amavo già abbastanza, e non come culla di chicchessia, ne amavo i viali di platani e le ombre sotto i portici.
Benedetta Cibrario (Rossovermiglio (Italian Edition))
hearts, for Negroni Sbagliato (the flavor of the month), the Campari, the Cocchi Storico Vermouth di Torino, and the Bisol Cartizze Prosecco Valdobbiadene laid out ready with the jigger, the rocks glass, the ice bucket and tongs, the orange and lemon, the paring knife, and the fresh cigarettes, unwrapped, packed down, opened, the first two poking out, one slightly higher than the other.
Deepti Kapoor (Age of Vice)
Torino mi piaceva più di Milano, era una città più abbordabile e inclusiva, mi sembrava che li ci fosse una possibilità per chiunque, anche per i disperati.
Gianluca Gotto (La Pura Vida)
Quando avevo sedici anni, frequentavo il liceo classico a Torino ed ero un ragazzo come tanti: avevo degli amici con cui era divertente passare del tempo, giocavo a calcio, c’era una ragazza che mi piaceva e avevo le tipiche ansie adolescenziali legate al percorso scolastico e al futuro.
Gianluca Gotto (La Pura Vida)
Torino mi piaceva più di Milano, era una città più abbordabile e inclusiva, mi sembrava che li ci fosse una possibbilità per chiunque, anche per i disperati.
Gianluca Gotto (La Pura Vida)
Non ho mai amato particolarmente Torino. Non è una cosa che puoi scegliere: se la città in cui sei nato e cresciuto non ti piace, puoi solo accettarlo.
Gianluca Gotto (Le coordinate della felicità)