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Quando infine recuperò il fiato fece uscire tutti per parlare da solo col suo medico.
«Non mi immaginavo che questa stronzata fosse così grave da far pensare all'olio santo» gli disse. «Io, che non ho la gioia di credere nella vita dell'altro mondo.»
«Non si tratta di questo» disse Révérend. «E' noto che sistemare le faccende della coscienza infonde all'ammalato uno stato d'animo che facilita molto l'incombenza del medico.»
Il generale non prestò attenzione alla maestria della risposta, perché lo fece rabbrividire la rivelazione accecante che la folle corsa fra i suoi mali e i suoi sogni arrivava in quel momento alla meta finale. Il resto erano tenebre.
«Cazzo» sospirò. «Come farò a uscire da questo labirinto?»
Esaminò il locale con la chiaroveggenza delle sue insonnie, e per la prima volta vide la verità: l'ultimo letto prestato, la toeletta di pietà il cui fosco specchio di pazienza non l'avrebbe più ripetuto, il bacile di porcellana scrostata con l'acqua e l'asciugamano e il sapone per altre mani, la fretta senza cuore dell'orologio ottagonale sfrenato verso l'appuntamento ineluttabile del 17 dicembre all'una e sette minuti del suo pomeriggio ultimo. Allora incrociò le braccia sul petto e cominciò a udire le voci raggianti degli schiavi che cantavano il salve delle sei nei frantoi, e vide dalla finestra il diamante di Venere nel cielo che se ne andava per sempre, le nevi eterne, il rampicante le cui nuove campanule gialle non avrebbe visto fiorire il sabato successivo nella casa sbarrata dal lutto, gli ultimi fulgori della vita che mai più, per i secoli dei secoli, si sarebbe ripetuta.
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