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Che fra Sette e Ottocento Alfieri e Manzoni guardassero a Firenze e alla Toscana, si spiega. Ma oggi, e da assai tempo in qua, la situazione è diversa. A nessuno è passato o passa per la testa che debbano essere risciacquati in Arno I Malavoglia e La coscienza di Zeno. E in fatto di lingua e letteratura italiana ieri l’altro si poteva da ogni parte d Italia guardare a Firenze perché ci vivevano e c’insegnavano uomini come Parodi e Rajna, senza preoccuparsi che l’uno (benché ligure) scrivesse bene e l’altro (non perché fosse di Sondrio) male, e ieri perché c’insegnava Barbi, e oggi perché c’insegnano uomini come Migliorini, ma chi mai, che in Italia avesse da dire o da scrivere qualcosa negli ultimi cento anni, è corso più a Firenze con la fede del D’Ovidio secondo cui «il fiorentino odierno si dovrà tener sempre come un vivo specchio d’ italianità sincera e fresca»? Senza dubbio, Firenze è stata nel nostro secolo, ed è, letterariamente ben viva, ma non mi sembra che questa sua vitalità sia stata caratterizzata da preoccupazioni linguistiche, di lingua intendo fiorentina o toscana piuttosto che italiana. Direi anzi che, per buoni motivi, se anche sui risultati si possa distinguendo discutere, a Firenze lo sforzo si sia nel nostro secolo esercitato in direzione diametralmente opposta a quella segnata dai linguaioli municipali del secolo scorso. A tal punto che poi venne giorno in cui ci piacque, con Pancrazi, ritrovare la freschezza semplice di quella vena sepolta. Mi pare ad ogni modo chiaro che la penultima, se non l’ultima, stagione della letteratura militante fiorentina si sia tutta sviluppata al segno, lontano, del Gabinetto Vieusseux, non a quello dell’Accademia della Crusca e neppure a quello dell’Istituto di studi superiori.
Insomma, «laissons-là, Bembo». D’accordo, e non da oggi. E Manzoni anche, fermo restando che al di là del manzonismo degli stenterelli, e proprio perché questo ci fu, tanto ancora dobbiamo imparare da lui. E anche, su altro piano, Croce, fermo restando che la lezione della sua prosa non è esausta, e che l'unico a tutt'oggi formidabile erede, fra Otto e Novecento, della grande erudizione italiana è stato, ed è, lui. Ma non possiamo permetterci il lusso di mettere da parte Ascoli, o per altro verso Comparetti, gli uomini della nuova Italia, duri come il macigno, senza retorica e senza poesia, alieni da ogni tesi conciliativa, fosse quella del D’Ovidio o la buona intesa del mio maestro V. Cian; non gli uomini che primi sulle macerie trite della questione della lingua e della congiunta «grammatica» fondarono la storia e la scienza della lingua italiana e inaugurarono il linguaggio europeo della filologia italiana.
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