Macchina Del Tempo Quotes

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... dove trovare il tempo per leggere? grave problema. che non esiste. nel momento in cui mi pongo il problema del tempo per leggere, vuol dire che quel che manca è la voglia. poiché, a ben vedere, nessuno ha mai tempo per leggere. né i piccoli, né gli adolescenti, né i grandi. la vita è un perenne ostacolo alla lettura. "leggere? vorrei tanto, ma il lavoro, i bambini, la casa, non ho più tempo..." "come la invidio, lei, che ha tempo per leggere!" e perché questa donna, che lavora, fa la spesa, si occupa dei bambini, guida la macchina, ama tre uomini, frequenta il dentista, trasloca la settimana prossima, trova il tempo per leggere, e quel casto scapolo che vive di rendita, no? il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (come il tempo per scrivere, d'altronde, o il tempo per amare.) rubato a cosa? diciamo, al dovere di vivere. [...] il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.
Daniel Pennac
La maggior parte di noi non può correre dappertutto, parlare con chiunque, conoscere tutte le città del mondo, perché non ha il tempo, i soldi e neppure tanti amici. Le cose che cerca, Montag, sono nel mondo, ma il solo modo in cui l’uomo medio può conoscerle è leggendo un libro. Non chieda garanzie e non si aspetti di essere salvato grazie a una sola persona, macchina o biblioteca. Preservi quello che può, e se si sentirà affogare, almeno muoia sapendo che stava nuotando verso riva.
Ray Bradbury (Fahrenheit 451)
Che tempi maledetti sono i periodi di malattia nell'infanzia e nell'adolescenza! Il mondo esterno, il mondo del tempo libero in cortile o in giardino, oppure per strada, penetra nella stanza del malato solo mediante rumori ovattati. Dentro prolifera il mondo delle storie con i loro eroi, di cui il malato legge. La febbre, che indebolisce la percezione e acuisce la fantasia, trasforma la stanza del malato in uno spazio nuovo, familiare ed estraneo al contempo; dei mostri emergono con le loro smorfie dei disegni delle tendine della tappezzeria, e le sedie, il tavolo, gli scaffali e l'armadio si ergono come montagne, palazzi o navi, tanto vicini da poterli toccare, eppure così lontani. I rintocchi dell'orologio del campanile, il rombo di una macchina che passa e le luci riflesse dei fari, che perlustrano le pareti e soffitto della stanza, accompagnano il malato attraverso le lunghe ore della notte. Sono ore senza sonno, ma non ore insonni; non ore di carenza ma di pienezza. Desideri, ricordi, paure e voglie combinano dei labirinti in cui il malato si perde, si ritrova e si perde. Sono ore in cui tutto è possibile, sia nel bene che nel male.
Bernhard Schlink (The Reader)
Di solito non parlo con gli sconosciuti. Non mi piace parlare con chi non conosco. E non per via della famosa frasa Non Dare Confidenza Agli Sconosciuti che ci ripetono continuamente a scuola, che tradotto vuol dire non accettare caramelle o un passaggio da uno sconosciuto perché vuole fare sesso con te. Non è questo che mi preoccupa. Se un estraneo mi toccassse lo colpirei immediatamente, e io so colpire molto forte. Come per esempio quella volta che ho preso a pugni Sarah perché mi aveva tirato i capelli e l’ho fatta svenire e le è venuta una commozione cerebrale e avevano dovuto portarla al pronto soccorso. E poi ho sempre con me il mio coltellino svizzero che ha una lama a seghetto in grado di tranciare le dita a un uomo. Non mi piacciono gli estranei perché non mi piacciono le persone che non conosco. Sono difficili da capire. È come essere in Francia, dove andavamo qualche volta in campeggio quando mio madre era ancora viva. E io odiavo la Francia perché se entravo in un negozio o in un ristorante o andavo in spiaggia non capivo quel che dicevano, e la cosa mi terrorizzava. Ci metto un sacco di tempo per abituarmi alle persone che non conosco. Per esempio, quando c’è una persona nuova che viene a lavorare a scuola non le parlo per settimane e settimane. Rimango a osservarla finché non sono certo di potermi fidare. Poi le faccio delle domande su di lei, sulla sua vita, del tipo se ha degli animali e qual è il suo colore preferito e cosa sa dell’Apollo e le chiedo di disegnarmi una piantina della sua casa e voglio sapere che macchina ha, così imparo a conoscerla. Da quel momento in poi non mi preoccupo più se mi capita di trovarmi nella stessa stanza con questa persona e non sono più obbligato a stare all’erta.
Mark Haddon (The Curious Incident of the Dog in the Night-Time)
Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio. L’invenzione della stampa è il più grande avvenimento della storia. E’ la rivoluzione madre. E’ il completo rinnovarsi del modo di espressione dell’umanità, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne assume un’altra, è il completo e definitivo mutamento di pelle di quel serpente simbolico che, da Adamo in poi, rappresenta l’intelligenza. Sotto forma di stampa, il pensiero è più che mai imperituro. E’ volatile, inafferrabile, indistruttibile. Si fonde con l’aria. Al tempo dell’architettura, diveniva montagna e si impadroniva con forza di un secolo e di un luogo. Ora diviene stormo di uccelli, si sparpaglia ai quattro venti e occupa contemporaneamente tutti i punti dell’aria e dello spazio.. Da solido che era, diventa vivo. Passa dalla durata all’ immortalità. Si può distruggere una mole, ma come estirpare l’ubiquità? Venga pure un diluvio, e anche quando la montagna sarà sparita sotto i flutti da molto tempo, gli uccelli voleranno ancora; e basterà che solo un’arca galleggi alla superficie del cataclisma, ed essi vi poseranno, sopravvivranno con quella, con quella assisteranno al decrescere delle acque, e il nuovo mondo che emergerà da questo caos svegliandosi vedrà planare su di sé, alato e vivente, il pensiero del mondo sommerso. Bisogna ammirare e sfogliare incessantemente il libro scritto dall'architettura, ma non bisogna negare la grandezza dell'edificio che la stampa erige a sua volta. Questo edificio è colossale. E’ il formicaio delle intelligenze. E’ l’alveare in cui tutte le immaginazioni, queste api dorate, arrivano con il loro miele. L’edificio ha mille piani. Sulle sue rampe si vedono sbucare qua e là delle caverne tenebrose della scienza intrecciantisi nelle sue viscere. Per tutta la sua superficie l’arte fa lussureggiare davanti allo sguardo arabeschi, rosoni, merletti. La stampa, questa macchina gigante che pompa senza tregua tutta la linfa intellettuale della società, vomita incessantemente nuovi materiali per l’opera sua. Tutto il genere umano è sull’ impalcatura. Ogni spirito è muratore. Il più umile tura il suo buco o posa la sua pietra. Certo, è anche questa una costruzione che cresce e si ammucchia in spirali senza fine, anche qui c’è confusione di lingue, attività incessante, lavoro infaticabile, concorso accanito dell’umanità intera, rifugio promesso all’ intelligenza contro un nuovo diluvio, contro un’invasione di barbari. E’ la seconda torre di Babele del genere umano." - Notre-Dame de Paris, V. Hugo
Victor Hugo (The Hunchback of Notre-Dame)
Non occorre davvero dilungarsi molto sull’argomento: la maggior parte degli uomini è oggi pienamente consapevole che la matematica è entrata come un demone in tutti i settori della vita. Forse non tutti credono alla storia del diavolo al quale si può vendere l’anima; ma coloro che dell’anima un po’ devono intendersene, perché in qualità di preti, storici e artisti ne ricavano buoni profitti, attestano che essa è stata mandata in rovina dalla matematica e che dalla matematica è scaturita un’intelligenza malvagia, grazie alla quale l’uomo è sì divenuto signore della terra, ma anche schiavo della macchina. L’aridità d’animo, l’orribile mescolanza di rigore nei dettagli e di indifferenza per l’insieme, la spaventosa solitudine dell’uomo in un deserto di particolari, la sua inquietudine, la malvagità, l’insensibilità, la sua sete di denaro, la freddezza e la violenza che caratterizzano il nostro tempo sarebbero da questo punto di vista solo e soltanto la conseguenza dei danni che un pensiero rigorosamente logico arreca all’anima. E così già allora, quando Ulrich divenne matematico, c’erano persone che pronosticavano il crollo della civiltà europea perché nell’uomo non albergavano più né la fede né l’amore, né l’innocenza né la bontà; e significativamente costoro, da ragazzi, quando andavano a scuola erano stati tutti piuttosto scadenti in matematica.
Robert Musil (The Man Without Qualities)
Finché l’umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria di superstizioni e di venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate. Che scopo si prefigge il vostro lavoro? Io credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale…
Bertolt Brecht (Galileo)
Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un pro¬dotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. […] I moti dei corpi celesti ci sono divenuti più chiari; ma i moti dei potenti restano pur sempre imperscruta-¬bili ai popoli. […] Finché l'umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria di superstizioni e di venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di svilup¬pare le energie della natura che le vengono svelate. […] Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione dei potenti egoisti e si li¬mitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l'uomo. E quan¬do, coll'andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall'umanità. Tra voi e l'umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universa¬le... […] Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero po¬tuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento d'Ippocrate: il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell'umanità. Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo. […] Per alcuni anni ebbi la forza di una pubblica autorità; e misi la mia sapienza a disposizione dei potenti perché la usassero, o non la usassero, o ne abusassero, a seconda dei loro fini.. Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può es-sere tollerata nei ranghi della scienza
Bertolt Brecht (Galileo)
Quel posto puzzava. Un odore bizzarro e composito, come può esserci soltanto nelle baracche sepolte nel ghiaccio di un accampamento antartico, un misto di fetido sudore umano, e dell'afrore ammorbante d'olio di pesce ricavato dal grasso di foca sciolto. Un vago sentore di linimento combatteva l'odore muffito delle pellicce infradiciate dal sudore e dalla neve. Il sentore acre del grasso alimentare bruciato, e l'odore animale e non del tutto sgradevole dei cani, diluito dal tempo, aleggiavano nell'aria. Gli odori residui dell'olio da macchina contrastavano nettamente con quelli dei rivestimenti e del cuoio. Eppure, in mezzo a tutto quel puzzo di esseri umani, di cani, di macchine e di cucina, c'era un altro tanfo. Era qualcosa di strano, che faceva rizzare i capelli sulla nuca, un debolissimo sentore alieno tra gli odori della attività e della vita. Ed era un odore di vita.
John W. Campbell Jr. (Who Goes There? and Other Stories)
Nella nuova situazione di agio e sicurezza perfetti, quell’energia irrequieta che per noi era forza diventa inevitabilmente debolezza. Persino nel nostro tempo certe tendenze e certi desideri, una volta necessari alla sopravvivenza, sono una fonte costante di insuccessi. Il coraggio fisico e l’amore per la battaglia, per esempio, non sono di grande aiuto all’uomo civile, anzi, possono essere un intralcio. E in uno stato di equilibrio fisico e sicurezza, il potere, intellettuale nonché fisico, sarebbe fuori luogo. Dovevo pensare che da anni innumerevoli non c’era più stato il rischio di una guerra o di qualche solitario atto di violenza, nessun pericolo da parte di animali feroci, nessuna malattia debilitante che richiedesse una costituzione sana e solida, nessun bisogno di lavorare. In una vita così, quelli che definiamo deboli sono equipaggiati bene quanto i forti, non sono più deboli. Anzi, sono più adatti, perché i forti si troverebbero logorati da un’energia che non sono in grado di sfogare. La squisita bellezza degli edifici che vedevo era senza dubbio il risultato dell’ultimo grande sforzo di un’energia ora divenuta inutile prima che il genere umano si concedesse alla perfetta armonia della nuova condizione che aveva raggiunto, la realizzazione di quel trionfo che aveva dato inizio all’ultimo grande periodo di pace. Tale è sempre stato il destino dell’energia in condizioni di sicurezza: scivola nell’arte e nell’erotismo e da lì nel languore e nella decadenza. Ma persino questo slancio artistico alla lunga è destinato a morire, ed era quasi morto nel tempo da me visitato. Adornarsi di fiori, danzare, cantare al tramonto: ecco cosa restava dello spirito artistico e niente di più. E anche quello alla fine si sarebbe spento nell’inattività appagata.
H.G. Wells
Contare i sassi perdendo il conto è il senso della nostra vita: l'algebra dei nostri spostamenti. Seguire percorsi perdendo il senso è la circonvoluzione, l'evolversi: la logica dei nostri istanti. Ma. No. Non c'è simmetria nei nostri atti. Mai il caso dei passi ci sorprenderà di sale. La nostra macchina del tempo. Avanti. Mai indietro la macchina di carne. Indietro non si torna. Indietro non si torna. Non c'è rimedio: la morte è un'asimmetria inguaribile. Enorme il ticchettio dell'Orologio ma ma il nostro tempo ha la stretta, il vortice l'acqua di sale di un'onda che ci copre. Rifà ed incava il viso, come sabbia ci porta via la carne.
Piero Olmeda (Of Time and Goats)
Alla sfida mondiale dei robot c’è una star ed è «made in Italy» Lorenza Castagneri | 454 parole L’umanoide del futuro, il robot che potrebbe sostituire l’uomo in molte emergenze, è italiano. Ha l’altezza di un corazziere - 1 metro e 85 - e mani agilissime. Pesa più di 100 chili, sa camminare, può aprire le porte, usare il trapano, afferrare un oggetto dietro la schiena senza voltarsi, perché ha braccia capaci di piegarsi all’indietro e piegarsi in avanti per raccogliere un oggetto. Si chiama Walkman (nelle foto) e l’hanno inventato all’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, in collaborazione con il Centro di ricerche «E. Piaggio» dell’Università di Pisa e grazie al contributo della Commissione Europea. Tra meno di un mese parteciperà a una competizione internazionale lanciata dalla Darpa, l’agenzia per la ricerca avanzata del dipartimento della Difesa americano. Obiettivo: definire gli standard tecnologici per i robot da impiegare in caso di disastri ambientali, alluvioni, terremoti e incendi. La gara si chiama «Darpa robotics challenge» e si svolgerà il 5 e il 6 giugno a Pomona, Los Angeles. Walkman e gli scienziati che lo guideranno saranno gli unici a rappresentare il nostro Paese e l’Europa. L’invito a prendere parte alla competizione è arrivato dagli organizzatori a fine 2013: «Considerata la forza delle idee dell’Iit, siamo certi che la sua partecipazione aumenterà la qualità della competizione», ha scritto Gill Pratt, responsabile dell’evento a Nikolaos Tsagarakis, che guiderà il team genovese. Da allora è cominciata una corsa contro il tempo per mettere a punto Walkman, che dovrà vedersela con le creature messe a punto da altre 24 squadre, tra cui la stessa Darpa e la Nasa, provenienti non solo dagli Usa, ma anche da Giappone, Corea, Cina e Hong Kong. I robot dovranno dimostrare, tra l’altro, di sapersi muovere e prendere decisioni in autonomia, salire le scale, oltrepassare ostacoli. Persino guidare un veicolo tipo Ranger: la prova più complicata che attende i ricercatori dell’Iit. E per rendere la situazione più realistica, in più fasi delle prove, le comunicazioni robot-scienziati saranno interrotte. «Siamo orgogliosi. Walkman è la dimostrazione che anche l’Europa, e su tutti l’Italia, gioca un ruolo decisivo per lo sviluppo del settore», ha commentato Roberto Cingolani, il direttore scientifico dell’Iit. Tanto che presto il robot sarà messo alla prova in situazioni di emergenza vere, definite con la Protezione civile. Ma quella della Darpa sarà una sfida che coinvolgerà anche i team che comandano i robot. Per individuare i primi tre classificati - a cui andrà un finanziamento di 3 milioni e mezzo di dollari - saranno valutati il software e l’interfaccia di controllo, oltre che le tecnologie per garantire alla macchina equilibrio, agilità ed efficienza energetica.
Anonymous
Da quando mio padre è morto, gli chiedo di intervenire nella mia vita. Guardo il cielo e gli parlo con voce confidenziale e veemente. È l’unico essere a cui possa rivolgermi quando mi sento impotente. All’infuori di lui non conosco nessuno che potrebbe preoccuparsi di me nell’aldilà. Non mi viene mai in mente di parlare con Dio. Ho sempre ritenuto che non si possa disturbare Dio. Non si può parlare con lui direttamente. Dio non ha tempo di interessarsi ai singoli casi. A meno che non si tratti di casi eccezionalmente gravi. Nella scala delle suppliche, le mie sono diciamo così ridicole. Io la penso come la mia amica Pauline, quando ha ritrovato una collana che aveva ereditato dalla madre e perso nell’erba alta. Passando da un paese, suo marito ha fermato la macchina per precipitarsi in chiesa. Il portone era chiuso, e lui si è messo a scuotere freneticamente il catenaccio. Ma cosa fai? Voglio ringraziare Dio, ha risposto. – Dio se ne frega! – Voglio ringraziare la Madonna. – Ascolta Hervé, se mai c’è un Dio, se mai c’è una Madonna, credi che con tutto quello che succede nell’universo, con tutti i mali del mondo, gliene importi qualcosa della mia collana?!... Per cui io invoco mio padre, che mi sembra più accessibile. Gli chiedo dei favori ben determinati. Forse perché le circostanze mi portano a desiderare cose precise, ma anche, sotto sotto, per testare le sue capacità. È sempre la stessa richiesta d’aiuto. Una preghiera affinché succeda qualcosa. Ma mio padre è un disastro. Non mi sente, oppure non possiede alcun potere. È deprecabile che i morti non abbiano alcun potere. Disapprovo questa divisione radicale dei mondi. Ogni tanto gli attribuisco un sapere profetico. Penso: non soddisfa le tue richieste perché sa che non sarebbe un bene per te. Questo mi dà sui nervi, ho voglia di dire, non sono affari tuoi, ma almeno posso considerare il suo non intervento come un gesto deliberato. [Da Marguerite Blot].
Yasmina Reza (Heureux les heureux)
L'arte è fatta per disturbare, è una macchina da guerra in tempo di pace al servizio dell'immaginazione, e può essere guidata soltanto dal desiderio, unico impulso in grado di mettere in modo un automatismo psichico inconscio capace di restituire alla mente la sua reale funzione, fuori da qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, dalla morale o dall'estetica.
Serena Dandini (La vasca del Führer)
Credo di poter dire oggi che ci siano due nuovi concetti che da allora sono diventati emblematici del mio rinnovato alfabeto fotografico: il senso dell'infinito come oggetto, come spazio osservato, che sta fuori e al di là della macchina fotografica, e che io non avevo mai rappresentato prima, e la pratica della contemplazione, che induceva uno sguardo lungo, uno sguardo iperanalitico che, per vedere e rappresentare quello che mi stava davanti, aveva bisogno di un tempo dilatatissimo. Ho scoperto "la lentezza dello sguardo". Uno sguardo lento, come era stato per Eugène Atget e Walker Evans, uno sguardo che mette a fuoco ogni cosa, che porta a cogliere tutti i particolari, a leggere la realtà in un modo assolutamente diretto: quindi il grande formato, il cavalletto, il ritmo rallentato, la luce così com'è, senza filtri, guardare e basta. In contemplazione davanti a questa meraviglia della natura ricca e mutevole. La fotografia rischia persino di essere qualcosa di estraneo, che infastidisce, ma che si usa perché è l'unico mezzo possibile per raccontare ad altri quello che si prova, si vede e si comprende. E in questo senso è anche un documento: di quello che si è visto.
Gabriele Basilico (Architetture, Città, Visioni: Riflessioni Sulla Fotografia)
Di quei dieci comandamenti – volontà di tregua e pace perpetua – io non ne ho rispettato nessuno, ho avuto mesi e anni per mettermi in pari, recuperare gli errori commessi, ma ho procrastinato gli eventi, ogni giorno poteva essere quello dopo, ogni tramonto lo avremmo potuto guardare la sera seguente, ogni perdono poteva restare implicito, nessuno avrebbe prosciugato il lago o avrebbe sradicato il molo, e il coniglio era morto da tempo e tale sarebbe rimasto: morto e sepolto nel giardino sul retro, tra le lattughe e qualche melanzana. [...]non le ho narrato della mia scarsa autostima, la coriacea voglia di offendere e affondare, come se ognuno fosse un pesce e io la mano stretta intorno al suo corpo liscio dentro la grande fontana che è una vita qualunque. Lei ha sempre custodito, nella sua memoria emotiva, la me fantastica e valorosa, la me affabile e sorridente, la me che è vittima e non fa pezzi dei corpi altrui, quella che canta a gola aperta in macchina e legge i libri al fresco dell’ombra, una me fugace, durata il tempo di una stagione, una immagine evanescente, un viso sott’acqua durante una gara di apnee.
Giulia Caminito (L'acqua del lago non è mai dolce)
Perché non ci sentiamo mai abbastanza? Perché, a volte, ci sembra di vivere la vita di qualcun altro? Quanto siamo disposti a rischiare davvero per inseguire i nostri sogni? Sara Melotti aveva tutto: un lavoro come fotografa di moda, viveva a New York, guadagnava benissimo. Eppure, un giorno, decide di mollare tutto perché capisce che il suo lavoro contribuisce ad alimentare standard di bellezza irreali. Così inizia a usare la sua macchina fotografica in maniera diversa, a viaggiare in solitaria in giro per il mondo in cerca del vero significato della parola bellezza. Viaggiando e scrivendo i suoi pensieri sul suo blog la sua vita prende una piega completamente inaspettata, una scelta anomala ma che per Sara è l'unica strada giusta: quella che permette di rimanere fedeli a se stessi, ai propri sogni e alla propria visione del mondo, senza il peso dei giudizi altrui. "La felicità è una scelta" è un reportage avventuroso sui cambiamenti che avvengono nel corso della propria vita e allo stesso tempo un ritratto generazionale potente e autentico, un manifesto per sognatori e cinici, una riflessione sul senso della vita oggi e sulle questioni sottaciute nel nostro rapporto con i social. Una guida illuminante su come difendersi dalle trappole dell'effimero e trovare significato nella propria esistenza. Postfazione di Emma Bonino.
Sara Melotti (La felicità è una scelta: Un viaggio per trovare il coraggio di ascoltare la propria voce (Italian Edition))
Che strano, Creta evocava i ricordi. Come una macchina del tempo, la sua antichità severa esumava immagini e sentimenti dal passato. Ogni momento sembrava rapportarsi a qualcosa che era successo anni prima.
Ben Pastor